STORIA DI REGGIO: REGGIO E I GOTI

Dopo la scorreria dei Visigoti del 410 Reggio riprese la sue esistenza tranquilla ed operosa. Ma a Ravenna i destini dell’Impero Romano d’Occidente stavano per compiersi. Le frontiere erano ormai state superate dalle orde di barbari, che stavano realizzando nell’ambito dell’Impero dei veri e propri regni indipendenti. Era il caso dei Burgundi e dei Franchi nelle Gallie, dei Visigoti nella penisola Iberica, dei Vandali nell’Africa proconsolare.

L’arrivo degli Unni, che, dopo la vera e propria impresa compiuta dal generale Ezio, furono fermati solo dall’autorità morale del papa di Roma (secondo un’altra versione dei fatti, dal vescovo di Ravenna) aveva dimostrato l’inconsistenza militare dell’esercito romano d’Occidente, ormai in mano ai foederati barbari. Alla stessa corte imperiale il potere era gestito da generali barbari, come era stato il caso del visigoto Stilicone, e come fu quello del generale ostrogoto Odoacre. In verità, Odoacre non era il più importante dei generali, ma fece una pensata che tanti altri barbari imitarono nei secoli seguenti: perché accontentarsi di stipendi e piccoli altri vantaggi economici quando sarebbe possibile, data la forza dei barbari al soldo dell’Impero, rivendicare un quinto delle terre dei romani?

L’idea fece subito proseliti, e Odoacre si trovò nelle condizioni di detronizzare l’imperatore Romolo, detto Augustolo data la sua giovane età, che era un fantoccio nelle mani del padre Oreste, assassinato dagli insorti.

Ma prendere il potere imperiale non era volontà di Odoacre, che ben sapeva che solo un Romano sarebbe potuto diventare Cesare, ed allora realizzò la seconda grande trovata della sua vita: rimandò all’imperatore Zenone, a Costantinopoli, le insegne imperiali dell’Occidente, autoproclamandosi suo devoto generale. Finiva così nel 476, senza grande clamore, l’Impero Romano d’Occidente.

L’imperatore orientale, per il momento, non prese provvedimenti contro Odoacre, che, per parte sua, non sapeva come mantenere la promessa fatta ai barbari di cedere loro un quinto delle terre dei Romani. Approfittando della ingombrante presenza di un esercito visigoto, al comando di Teodorico, oppure da lui stesso sollecitato, l’imperatore diede il suo tacito assenso alla cacciata di Odoacre mediante i Visigoti.

Per i Romani le cose non andarono meglio, nonostante la propaganda favorevole a Teodorico, messa in piedi da alcuni senatori romani collaborazionisti, tra cui il calabrese Cassiodoro. Teodorico, invece, si impegnò a porre in atto la promessa della cessione ai barbari di un quinto delle terre dei Romani, ed escogitò un modo ingegnoso e perfido per superare le difficoltà inerenti.

Fece formare una commissione dagli stessi maggiorenti romani, che doveva scegliere chi di loro avrebbe perso le terre, e in che misura. In questo modo il re Teodorico si garantiva non solo le terre necessarie ai barbari, ma anche un devoto gruppo di proprietari terrieri romani, che gli sarebbero stati grati per avere mantenuto i propri beni e sarebbero stati terrorizzati dalla prospettiva di cadere in disgrazia e perdere tutto.

Coloro che avevano perduto le proprie terre andavano, invece, ad ingrossare le fila degli esuli a Costantinopoli, facendo causa comune con gli esiliati dal governo vandalo in Africa.

Anche a Reggio la presenza gota si fece sentire in questi anni. Un Goto comandava la guarnigione, situata non si sa in quale fortificazione o torre, mentre altri Goti dovettero prendere delle terre nei dintorni della città, anche se è generalmente creduto che la maggior parte dei barbari si scelse terreni nel nord Italia.

Il sessantennio della presenza dei Goti a Reggio, comunque sia, non ha lasciato tracce apprezzabili, a differenza di quanto avvenuto , per esempio, a Ravenna, dove le opere di Teodorico sono ancora oggi visibili.

Nel 534 l’imperatore Giustiniano, in guerra contro i Vandali d’Africa, chiese al re dei Goti Teodato il permesso di utilizzare la Sicilia come base di operazioni. Il re goto, che era stato costretto, in seguito ad un accordo, a cedere Lilibeo (l’odierna Marsala) ai Vandali, accettò la richiesta dei Romei.

La campagna d’Africa del più valente generale romeo, Belisario, contrariamente a quanto previsto dagli esperti, si risolse in pochissimi mesi. I Vandali, che pure avevano tenuto testa, e sconfitto sonoramente, tutti gli eserciti imperiali inviati per decenni contro di loro, nel corso della battaglia decisiva adottarono un comportamento suicida, rinunciando ad utilizzare la cavalleria, in cui erano molto forti, facendo addirittura smontare i cavalieri, per costringerli a combattere a piedi. Dopo la vittoria, Belisario entrò da trionfatore a Cartagine, ex capitale del regno e da allora capoluogo dell’Esarcato d’Africa.

Fu forse l’inaspettata velocità e facilità di questa vittoria a convincere Giustiniano e la sua corte a creare il casus belli con i Goti. Nel 535, a Belisario fu, perciò, ordinato di non restituire ai Goti le posizioni occupate in Sicilia, anzi, al contrario, di marciare verso la capitale dell’isola, Siracusa. Prendeva, così, corpo il piano di restaurazione dell’Impero Romano ideato da Giustiniano.

La popolazione romana di Sicilia accolse l’esercito romeo in modo entusiasta, sia perché venivano scacciati i conquistatori barbari, sia anche per il fatto che il quinto delle terre trafugate veniva restituito ai legittimi proprietari, o ai loro discendenti. In questo clima festoso, considerando anche che, come abbiamo detto, i Goti avevano grandi apprestamenti militari nel sud dell’Italia, Belisario, nominato dall’imperatore console per l’anno successivo, sfilò con il suo esercito per le via principale di Siracusa, adornato dalle insigne consolari, la trobea e lo scipio, il corto scettro sormontato da un’aquila ad ali aperte.

Tutte le città della Magna Grecia, che era sprovvista di eserciti di manovra, decisero di venire a patti con il generale romeo. Anche a Reggio, che era stata affidata ad un genero del re Teodato, di nome Evermund, il presidio goto accettò di ricevere un pagamento in denaro e di lasciare la città, porta d’Italia, a Belisario. Anche a Reggio si rinnovarono le manifestazioni di giubilo della popolazione, che veniva liberata dalla dominazione dei barbari.

Agli occhi di un vero soldato e grande stratega, quale certo era Belisario, la cosa più sorprendente fu quella di vedere Reggio sguarnita di mura. Lo storico Procopio di Cesarea, che era segretario particolare dello stratego romeo, e quindi prezioso testimone, ci ha lasciato la notizia che Belisario ordinò subito la ricostruzione delle mura della città. Egli sapeva bene le due funzioni a cui aveva assolto Reggio per tutta l’epoca romana, quella di porto e quella di fortezza dell’intera Brettanìa come allora si chiamava l’odierna Calabria. Era consapevole che durante la guerra contro Pirro, e poi in quella contro Annibale, e poi nella guerra contro gli Italici, in quella contro Spartaco ed in quella contro Sesto Pompeo, il piano strategico romano era stato sempre lo stesso: non difendere accanitamente nessun centro calabrese, ma tenere strettamente solo Reggio. La Calabria, infatti, non ha risorse alimentari per sostentare eserciti di occupazione, e nemmeno dispone di veri e propri porti, tranne Reggio e Crotone, che permettono di fare arrivare i viveri necessari. Di più, la regione è montagnosa, con vie di comunicazione difficili. Lo stesso Annibale, quando si rese conto di essere finito in trappola entrando in Calabria, negli ultimi anni in cui rimase nella regione non si mosse praticamente mai da Crotone, perché il suo esercito dipendeva dal vettovagliamento esterno, anche se i Bruttii gli erano fedeli e collaborativi in massimo grado, e controllavano tutto il territorio tranne Rhegion. Lo stesso devono aver pensato sia l’esercito degli Italici nell’89 a.C., che gli schiavi ed i gladiatori ribelli di Spartaco nel 70 a.C., che non pensarono nemmeno lontanamente di rimanere in Calabria, ma si diressero subito verso lo Stretto, nel tentativo, poi frustrato, di passare in Sicilia. Belisario sapeva anche come si era comportato il generale romano incaricato di fermare Spartaco: gli aveva costruito un muro da costa a costa, per tenerlo intrappolato all’interno delle attuali provincie di Reggio e Vibo, e non permettergli di replicare la mossa di Annibale.

La scelta di trasformare Reggio in un kastron fortificato fu uno dei cambiamenti storici che subì l’urbanistica della città. Il tracciato delle mura non poteva più essere quello sulle colline del Salvatore, perché era indispensabile proteggere il porto, né quello ampio della città ellenistica e romana, giacché la popolazione abitante era notevolmente calata, a tutto beneficio dei choria circostanti. Si decise, così, di fare della collina di Piazza Castello il punto più elevato della città ed il perno delle fortificazioni, mantenendo all’interno della nuova cinta il foro, trasformato in pretorio, cioè in centro amministrativo del governatore, utilizzando il vallone di via Giulia per rinforzare il muro del lato settentrionale, e potere, così, sfruttare una parte delle antiche mura ellenistiche sul lato del mare. Per provvedere alla difesa della città, dovette essere mantenuta una fortificazione sulle colline del Salvatore, tra l’altro indispensabile per l’approvvigionamento dell’acqua potabile. Intorno a questa fortezza, non testimoniata, pare, da scavi archeologici, si mantenne quello che ancora oggi viene chiamato il quartiere del Trabocchetto.

 

Tratto da “La storia di Reggio a fumetti” commissionato dall’Amministrazione Comunale di Reggio Calabria. Testo del professore Daniele Castrizio

 

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