STORIA DI REGGIO: IL VINO REGGINO E LA COLTURA DELLA VITE

Già il dotto Ateneo di Naukratis, alla fine del II secolo d.C., aveva scritto nella sua opera ”I sofisti a banchetto” che “il vino reggino è più liquoroso del Sorrentino, rimanendo utilizzabile anche dopo 15 anni. Si mantiene anche il Priverno, che è più leggero del Reggino e dà meno alla testa”. Si tratta di un’attestazione del vino reggino, lodato per le sue doti come vino dolce, di carattere, e capace di invecchiare mantenendo il suo gusto. A ben guardare nei dati a nostra disposizione, però, questa testimonianza, non è l’unica a noi rimasta, giacché sono stati pubblicati dei colli di anfore di I secolo d.C., provenienti da Roma, con la scritta REGINVM VINVM, “cioè vino Reggino”, sovrimpressa. Si tratta anche in questo caso di una specie di marchio DOC, e crediamo che le analisi sulle argille delle anfore da trasporto vinario ci daranno delle piacevoli sorprese, riconducendo molte di esse a centri di produzione dello Stretto.

La produzione vinaria del territorio di Reggio, come anche pure della Locride, dove era presente il vino Kaikinos, diretto antenato dell’odierno “greco di Bianco”, conobbe un costante incremento durante tutta l’epoca imperiale, tanto da fare parlare di una monocultura, o di una coltivazione privilegiata dell’intera area. Questa affermazione trova la sua giustificazione nel ritrovamento di un elevato numero di palmenti, tutti databili tra il III-IV e il VII secolo d.C. nell’intera area ionica, della periferia di Reggio fino a tutta la Locride. Si tratta di un patrimonio archeologico e culturale unico al mondo, ancora tutto da tutelare e valorizzare, indice di una vocazione economica, quale quella vinaria, che attende anch’essa di essere riscoperta e sfruttata per lo sviluppo del territorio.

Le indagini sulla produzione vinaria ci hanno regalato, nel recente passato, una sensazionale scoperta archeologica, che ci aiuta a comprenderne la reale dimensione economica.

Indagini condotte sulle argille di un particolare contenitore vinario, chiamato dagli archeologi “Keay LII”, tipico dell’epoca tardoantica, diffuso in tutto il Mediterraneo e perfino nell’attuale Inghilterra meridionale, hanno dimostrato che si tratta di una produzione tipica dello Stretto, ed in particolare dell’area intorno a Pellaro. Il concetto è quello di una specie di fiasco, un contenitore che fungesse anche da marchio di qualità per un determinato tipo di vino pregiato, facile da riconoscersi.

Legata alla produzione vinaria era anche l’estrazione della pece, rinomata per tutta l’epoca antica. La pece, infatti, oltre che per calafatare le navi, cioè renderle impermeabili, serviva anche a proteggere la parte interna delle anfore vinarie ed a conferire al vino contenuto un aroma resinato, molto apprezzato nell’antichità, che ha lasciato come erede al giorno d’oggi il vino “retsìna”, prodotto in Grecia e nella Locride.

Tra le anfore Keay LII rinvenute nel territorio risaltano quelle con il bollo costituito da un’anfora a sette braccia, il simbolo giudaico. Come si comprende, si tratta di produzioni delle comunità ebraiche del Reggino, che forse ci aiutano a comprendere il fenomeno dell’espansione e razionalizzazione della produzione vinaria nella sua interezza. Recenti scavi in Israele e in Egitto, infatti hanno mostrato un sistema produttivo estremamente simile a quello nostro, fondato su un elevato numero di palmenti e, soprattutto, contrassegnato da una circolazione monetale identica a quella indagata per la Calabria meridionale. In entrambi i casi si assiste ad un aumento vertiginoso di quantità di numerario in rame, battuto per la maggior parte dei casi, in zecche orientali. È nostra ferma opinione che l’unico modo di aggirare la legge numismatica che impone un limitato raggio  di circolazione agli spiccioli sia quello di considerare le monete di rame battute a Costantinopoli, a Nicomedia o a Cizico, ad Alessandria o a Siscia, arrivate in Calabria meridionale in seguito a piccoli scambi piuttosto che a traffici internazionali, che avrebbero previsto transazioni in oro. A ben guardare, si tratta del classico “uovo di Colombo”: i centri della ionica reggina, che si trovavano naturalmente situati lungo la rotta principale che dall’Oriente portava al Tirreno ed a Roma, con le grandi navi onerarie che attraccavano per la notte negli approdi locali, capirono ben presto che si poteva vendere ai mercanti stranieri prodotti locali, attrezzando piccoli centri di vendita presso ciascun porto. Nacque così, o forse prese solo maggiore consistenza, una forma di commercio che intercettava non l’oro e l’argento, ma le monete di rame, in quantità strabilianti.

Il ruolo dei Giudei in questa “progettazione” deve essere stato di primaria importanza, dato che il sistema produttivo sembra essere stato letteralmente importato dal Vicino Oriente. Non dimentichiamo anche che la religione ebraica impone una serie di tabù alimentari per mantenere la purezza dei credenti, e non improbabili che il marchio della menorah posto sulle anfore ne certificassero il loro essere kasher. La produzione di vino kasher per le comunità ebraiche della diaspora dovette essere un affare certamente molto redditizio per i Giudei del Reggino.

 

Tratto da “La storia di Reggio a fumetti” commissionato dall’Amministrazione Comunale di Reggio Calabria. Testo del professore Daniele Castrizio

 

 

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