LA STORIA DI REGGIO: LA FASE ARCAICA

Quale fu l’insediamento originario non è facile da stabilire. Gli studi erronei ed incompleti del secolo scorso hanno delineato una polis che coincideva con il Corso Garibaldi e le strade immediatamente adiacenti, non considerando che  le fonti antiche e, di più, il mero buon senso, consigliavano di cercare sulle Colline del Salvatore l’insediamento più antico.

Grazie a questa errata prospettiva, quindi, si sono sottovalutate le scoperte nella zona più alta della città (dal quartiere Fornaci, dal Trabocchetto, dalle colline divenute Parco Fiamma) e non si sono mai realizzate campagne di scavo mirate, consentendo inconsapevolmente alla speculazione edilizia il “sacco” delle Colline del Salvatore. La polis antica, invece doveva avere come punto di forza le attuali parrocchie di San Paolo alla Rotonda e di San Domenico, ricche di acqua e facilmente difendibili. A nostro avviso, il salto di quota tra la via Reggio Campi e la via Possidonea(“la via di Poseidone” e non dei “possidenti”) potrebbe indicare il punto meglio difendibile, e quindi la parte occidentale delle mura della polis, ma è, per il momento, solo un’ipotesi. Certamente intorno al porto, presso l’Apsia/Calopinace, si dovette sviluppare la cantieristica navale e si dovettero ubicare i magazzini delle merci, una agorà commerciale, case residenziali, oltre che santuario di Artemide Fascelide, venerato da tempo immemorabile.

Alcuni reperti, che sembrerebbero di origine tombale, rinvenuti sotto l’attuale Palazzo San Giorgio a Piazza Italia, fanno pensare alla presenza di necropoli in quello che poi diventerà il centro della città nei secoli successivi, fino ad oggi. Un altro santuario, forse già nel VII sec., è stato individuato nella c.d. Area Griso Laboccetta, dove ora è un piccolo Parco Archeologico. Si trattava di un centro di culto importante, almeno a giudicare dai reperti rinvenuti, che adornano una buona parte delle Sale di Reggio al Museo Nazionale della Magna Grecia.

La fondazione di Rhegion in un’area occupata da Siculi comportò da subito il problema dell’espansione della chora (il “territorio” di una polis) verso aree fertili e confini sicuri. Verso nord, con tempi e modi che sfuggono, Reggio occupò la Piana di Gioia Tauro fino al fiume Petrace/San Fantino, in antico (Me)Tauro. Forse, in un primo momento, anche l’emporion (“approdo commerciale”) di Metauro, odierna Gioia Tauro, dovette essere preso dai Reggini, ma poi, nell’epoca classica, divenne parte della polis Medma/Rosarno.

La “possente città di Taisia”, per citare Diodoro Siculo, per noi da localizzare presso San Fantino di Palmi, divenne il punto di forza del sistema difensivo confinario, che si estese anche verso l’interno sull’Aspromonte, dove è stata scavata la fortezza di Serro di Tavola, a custodia dei feraci campi di San Martino, delle Gambarie (“i campi”) e dei Campi di Reggio.

La rocca di Scilla divenne stabilmente possesso dei Reggini, punto di forza in epoche seguenti per il controllo dello Stretto. Sullo Ionio, invece, la città si estese verso Melito (Decastadion = “dieci stadi”, due chilometri) ed arrivò ad inglobare la Bovesia, da sempre indissolubilmente legata a Reggio. Ricerche archeologiche di superficie dimostrano che ogni due fiumare era stato creato un centro di controllo e di resistenza, spesso fortificato (chorion). Gli approdi più importanti (ad Occhio di Pellaro, a Lazzaro, a Melito Porto Salvo, a Capo Crisafi di Bova, a San Pasquale di Bova, a Palizzi) erano stati dotati di un cospicuo centro abitato e di piccole fortezze difensive (pyrgoi = “torri”).

Il problema del confine ionico rimase per secoli una spina nel fianco dei Reggini, che intendevano appropriarsi del Promontorio Eracleo/Capo Spartimento, e soprattutto dei due porti ad esso connessi, indispensabili per doppiarlo in caso di vento contrario con i mezzi navali dell’epoca. Nei secoli successivi la lotta contro Locri si accese spesso feroce, per conquistare un peripolion (“fortezza confinaria”) locrese ed il chorion di Kaikinos, che prendeva nome dal vicino fiume, da ubicarsi presso Brancaleone. Con grande stupore, oggi, non possiamo non rimarcare come i confini tradizionali della Diocesi di Reggio/Bova, fissati a Brancaleone, coincidano con l’estensione massima della chora reggina.

Verso l’interno, nell’Aspromonte selvaggio e bellissimo, la marcia dei Reggini si arrestò a mezza costa, lasciando sopravvivere alcune tribù di Siculi, come ci dice lo storico ateniese Tucidide. La toponomastica ci restituisce un Monte Peripoli sopra a San Lorenzo, che dovrebbe essere il sito di un peripolion, ovvero di una fortezza confinaria reggina nel cuore della montagna.

Sul versante economico, la città divenne in poco tempo un attivo porto commerciale, vero e proprio porto di transhipment tra Oriente e Occidente: dall’Anatolia, dal Mar Nero, dalla Siria e dall’Egitto i prodotti venivano convogliati a Reggio, per essere poi imbarcati per tutto il Tirreno fin nelle Gallie. Oltre a ciò, però, alcune merci di esportazione reggine cominciarono a farsi apprezzare sui mercati mediterranei: la pece ed il legname dell’Aspromonte, chiamato in antico Sila; prodotti ceramici con le buone argille reggine; manufatti artistici in bronzo; il pesce dello Stretto, e soprattutto il più famoso, lo xiphias/pesce spada, pescato con barche che sono state sostituite con le attuali “passerelle” solo nella seconda metà del secolo scorso. Venire a comprare nell’agorà di Reggio conveniva sempre, perché si potevano trovare veramente mercanzie di tutto il mondo.

La prosperità economica favorì anche la crescita culturale della città. Il punto di contatto tra le due sfere ci piace trovarlo nella ceramica “calcidese” a figure nere. Si tratta di raffinato vasellame dipinto a figure nere, unico in grado di battere la concorrenza della ceramica attica, che, nel VI sec. a.C., vide come centro di produzione principale (e forse l’unico) Reggio.

Non è difficile riscontrare nelle scene di guerra troiana dipinte sui vasi una fedeltà al testo omerico impressionante, soprattutto se confrontata con l’approssimazione che spesso caratterizza anche i migliori prodotti ittici. Sui vasi reggini, invece, si può, guardando un’immagine, citare il verso omerico esatto che essa illustra e riproduce.

Ci piace mettere in relazione la cultura dei maestri pittori con l’opera di Theagenes reggino, primo grammatico e primo studioso di Omero della storia, capace di restituire il testo originario dell’Iliade e dell’Odissea, ma anche di influenzare le botteghe dei ceramografi reggini.

Dopo la metà del VI sec. anche nella città di Reggio è presente un’elite intellettuale rappresentata dai seguaci del filosofo Pythagoras di Samo. Questi aveva sviluppato una filosofia che aveva molti addentellati con la vita della polis. Le aristocrazie culturali magnogreche dettero vita ad uno dei periodi più fecondi dell’Italia meridionale, lasciando una traccia intellettuale destinata a segnare profondamente il carattere della regione. A Reggio, durante la fioritura pitagorica, il governo fu mantenuto saldamente da una ristretta oligarchia di uomini, amici e seguaci del filosofo Pitagora. Nelle fonti letterarie questo governo di pochi prende il nome di “1000 tiranni”. In questo periodo storico va inquadrata la figura del legislatore Charondas, probabilmente originario di Catania, che redasse anche il codice delle leggi di Reggio. Il VI sec. a.C. fu un periodo storico in cui la Magna Grecia si segnalò per la straordinaria fecondità di legislatori “moderni”, come Caronda o Zaleukos di Locri, che diedero un’impronta di maggiore giustizia nelle città coloniali. Non a caso è un reggino anche il primo storico dell’Occidente greco: Hippys. Ippi reggino rappresenta e palesa il grado di civiltà raggiunto da Rhegion nell’età classica. Da lui tutti i futuri storici trassero le notizie relative alla più remota antichità. Il suo sguardo indagatore, poi, ovviamente era diretto a scrutare quello che percepiva come il suo orizzonte culturale: Reggio e la Sicilia orientale.

Pur nella ristrettezza delle fonti disponibili, risulta evidente la percezione del ruolo strategico di Rhegion, che sembra essere interessata a giocare un ruolo di primaria importanza in alcune aree considerate importanti per lo sviluppo della polis. Principalmente l’interesse della polis si appuntò verso il basso Tirreno ed alcune aree della Campania meridionale, in cui Reggio, secondo le ricostruzioni moderne, esercitò, con la sua marina da guerra, un ruolo di “polizia del mare” contro la pirateria, soprattutto quella etrusca. Non è certo frutto del caso se, alla caduta di Sibari, città egemone della Magna Grecia fino al 510 a.C., Rhegion e Zankle coniarono ciascuna una breve serie di monete incusa, tipica delle colonie achee dell’Occidente, e se il popolo italico dei So(ntini) decise di battere moneta incusa utilizzando il sistema monetale reggino.

La prima moneta di Rhegion mostra un toro androprosopo (“a volto umano”) con una ninfa di cicala sopra il suo dorso. Il toro androprosopo rappresentava una divinità connessa ad un fiume locale, forse l’Apsia/Calopinace o, piuttosto, l’Halex/Palizzi, dove Eracle aveva fatto tacere per sempre le cicale. Una recente teoria vede nella presenza della ninfa di cicala, che rimane per anni sotto terra prima di diventare cicala, una prova delle credenze orfico-pitagoriche nella vita nell’aldilà dopo la morte.

Per comprendere appieno il ruolo primario di Reggio basta considerare la vicenda degli esuli della città asiatica di Focea. Una parte della popolazione, infatti, dopo la conquista da parte dei Persiani, non si rassegnò a rimanere suddita dei nuovi padroni, ma preferì imbarcarsi su una flotta, decisa a colonizzare la Corsica. La nuova fondazione, però, avrebbe costituito una vera e propria spina nel fianco degli Etruschi, una minaccia ai loro traffici ed alla loro supremazia navale. In alleanza con i Cartaginesi, le città etrusche allestirono una forte flotta da guerra, per combattere e respingere i Focei della Corsica. Nella successiva battaglia di Alalia i Focei riuscirono sì a sconfiggere la coalizione nemica, ma persero troppi uomini e troppe navi, decidendo di dirigersi con i superstiti verso Reggio. Lì, il governo reggino, in pieno accordo con l’alleata Massalia (odierna Marsiglia), convinse i Focei rimasti ad impiantare una nuova apoikia in Campania, presso la fonteHyele. Nacque, così la città di Velia, che diede lustro all’intera Magna Grecia ed i cui resti archeologici impressionano tuttora i visitatori.

Il VI sec. a.C. fu anche l’epoca del tentativo da parte della Crotone pitagorica di imporre la sua supremazia sull’intera Magna Grecia. Le tappe dello scontro sono segnate dalla presa di Siri, ricca colonia agricola nella pianura siritide e dalla vittoriosa spedizione contro Sibari nel 510 a.C., che portò alla distruzione della città ed allo smembramento del suo “impero”.

Prima della presa di Sibari, Crotone aveva anche tentato di assestare un colpo militare molto importante nei confronti delle poleis dell’estremo sud nella regione: Rhegion e Lokroi. L’attacco si concretò in un’imponente spedizione militare crotoniate, che entrò nella Locride seguendo la via costiera ionica. Per contrastare l’esercito nemico (che le fonti, esagerando, affermano di essere stato di circa centomila uomini armati) Locresi e Reggini, per la prima volta nella loro storia, decisero di allearsi, riuscendo a mettere insieme una milizia di diecimila opliti di Lokroi, supportati da mille reggini, lo scontro decisivo avvenne vicino il fiume Sagra, forse la fiumara del Torbido, e si risolse, inaspettatamente, in una grande vittoria reggina e locrese. La storiografia italiota (“greca d’Italia”), che era principalmente reggina, dovette celebrare con grande enfasi retorica la grande disfatta dei Crotoniati, tanto che rimase celebre in antico il proverbio “vero quanto la battaglia della Sagra”, usato per bollare una palese esagerazione. A Lokroi ed a Rhegion si attribuì il merito della vittoria all’intervento divino dei Dioscuri, Castore e Polluce, che, da allora, presero un posto particolare nel pantheon delle due poleis italiote.

 

Tratto da “La storia di Reggio a fumetti” commissionato dall’Amministrazione Comunale di Reggio Calabria. Testo del professore Daniele Castrizio

 

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