STORIA DI REGGIO: L’ARRIVO DEI NORMANNI

La spedizione di Giorgio Maniace fu l’ultima grande impresa romea in Calabria. L’inizio dell’XI secolo, però, aveva visto la compagine imperiale ottimamente organizzata e capace di dare risposte al territorio. Dopo la riconquista della Calabria settentrionale, si era assistita ad una riorganizzazione dell’intera regione: le fortezze furono potenziate ed aggiornate dal punto di vista militare. I kastra, cioè le città più importanti, vennero munite di mura più potenti, e spesso furono in qualche modo “rifondate”.

Per quanto riguarda le fortezze, l’esempio più calzante viene dal kastellion di Santa Niceta (comune di Motta San Giovanni), una delle più antiche fortificazioni di età medievale rimaste in piedi. Se guardiamo al nucleo originario, ci accorgiamo che si tratta di una fortezza concepita per salvaguardare la popolazione della vallata, perché è costituita da una cinta muraria senza strutture abitative all’interno, tranne una piccola porzione, posta nel punto più alto e protetta da un altro muro di cinta, che doveva servire alla guarnigione e per l’ultima difesa. Un potere al servizio del proprio popolo: che contrasto con i manieri feudali dei Franchi, costruiti solo per proteggere una sola famiglia, quella del Barone, ed i suoi armigeri.

Sulla “rifondazione” delle città, basterà invece, ricordare, il caso di Gerace, divenuta Sanata Ciriaca, e di Oppido Mamertina, chiamata Sant’Agata.

Una sana amministrazione, una Chiesa locale ricca di santi autoctoni, un forte senso di appartenenza alla nazione romana, una cultura diffusa, con scriptoria di grande importanza, che hanno permesso la salvaguardia del patrimonio letterario greco nell’Occidente (è questo un merito che solo gli specialisti del settore riconoscono a Reggio ed alla Calabria), e con scuole di formazione per la pubblica amministrazione e per il clero simile a vere e proprie Università (ben prima di Bologna). Soprattutto, va citato il contesto economico florido, anche in presenza di guerre ed incursioni saracene, con la produzione della seta, affiancata da vino, olio, formaggi, pece, pergamene, lana, inchiostri.

La vita nella città di Reggio non doveva avere perso molti di quegli agi tipici delle città romane nel tardoantico: il kastron manteneva terme efficienti, aveva un ospizio per gli anziani, un mercato degli schiavi, palazzi privati di gran pregio, chiese antiche e riccamente dotate, monasteri, come quello di San Nicola di Calamizzi, che rappresentavano oasi di spiritualità ed erano centri di cultura di livello internazionali. Celebre, a tal proposito, è il caso del convegno di dotti tenutosi proprio a Reggio, avente per tema il significato ermetico del Romanzo “LeEtiopiche” di Eliodoro, un best seller che celava un profondo messaggio, cristiano mascherato sotto una trama erotica.

Intorno agli anni ’50 del XI secolo, da Costantinopoli era arrivato a Reggio ed in provincia la conoscenza dello stile basilicale per la costruzione delle chiese. Prima della perdita della libertà, si fece in tempo a costruire la chiesa di Sant’Antonio il Grande ad Archi e quella di San Giovanni il Mietitore a Bivongi.

Il commercio della seta permetteva lauti guadagni, e, dal poco che è sopravvissuto ai terremoti ed all’avidità degli uomini, possiamo apprezzare una Reggio raffinata, in cui, come nel periodo magnogreco, in quello ellenistico ed in quello romano, gli oggetti ritrovati appaiono di pregio e ben curati. Se guardiamo anche alla provenienza dei reperti, notiamo come il rapporto privilegiato con il Vicino Oriente non si è mai interrotto, e Antiochia e Gerusalemme, oltre che Alessandria, sono in stretto contatto con Reggio e con lo Stretto. La numismatica dimostra la veridicità di questo assunto: per tutta l’età romea si devono registrare monete orientali nella provincia di Reggio e nella Sicilia orientale, mentre monete in uso sulle rive dello Stretto sono rinvenute in Siria, Libano e Israele attuali.

In questa temperie culturale, non ci sorprende la constatazione stupita degli archeologi che i motivi decorativi di chiese del Reggino e della Locride rimandino a modelli selgiuchidi della Turchia occidentale: la via della seta portava con sé non solo merci, ma anche cultura ed idee. E la seta grezza rappresentava veramente per la Reggio romea una fonte importante di reddito, al punto che ritroviamo Reggini impegnati, come imprenditori e manovalanza specializzata, in importanti laboratori serici di Tessalonica.

Il quadro disegnato, che ci presenta una Reggio colta, raffinata, pienamente inserita nei traffici internazionali – con Reggini che potevano facilmente fare carriera sia nell’amministrazione imperiale a Costantinopoli sia in quella religiosa – era destinato a modificarsi in modo radicale: assistiamo alla fine della libertà, dello splendore, ed all’inizio di una lenta decadenza, capace di ridurre una città cosmopolita ad un paesetto provinciale ripiegato su se stesso. La straordinaria capacità di difendersi messa in atto dai nostri padri, capace di frustrare le aspirazioni di dominio dell’Islam e dei Longobardi, si dovette arrendere ad un’orda di predatori di origine vichinga, che, nell’XI secolo, sconvolsero l’intera Europa occidentale, dall’Inghilterra a Costantinopoli: i Normanni.

L’arrivo dei Normanni in Italia fu assolutamente casuale. Di ritorno da un pellegrinaggio a Gerusalemme, alcuni cavalieri furono ingaggiati come mercenari dai Longobardi. I Normanni compresero immediatamente l’estrema fragilità del sistema politico e militare longobardo, in cui sarebbe stato facile inserirsi, giocando abilmente la carta della loro fama di combattenti feroci e sfruttando le divisioni dei vari duchi e principi. Nel 1030, ricattando il loro signore, il duca di Napoli Sergio IV, in guerra contro il principe di Capua, essi erano addirittura riusciti ad ottenere il riconoscimento della contea di Aversa. Il loro capo, Rainulfo Drengot, aveva addirittura sposato la sorella di Sergio IV. Come abbiamo visto, anche l’impresa di Giorgio Maniace aveva coinvolto mercenari normanni al comando del milanese Arduino, ed il loro comportamento arrogante e barbaro, in quell’occasione, portò a dei provvedimenti disciplinari che causarono il loro abbandono dell’esercito.

La creazione della contea normanna di Aversa ebbe come conseguenza quella di attirarvi gruppi di cavalieri senza terra, figli cadetti di nobili che erano fuori dalla linea ereditaria paterna, che destinava l’intero patrimonio al primogenito. Si può ben dire che, da questo momento in poi, tutti i briganti e gli avventurieri dell’Europa franca si riversarono nell’Italia meridionale, ai loro occhi un vero e proprio Eldorado, ansiosi solo di spolparla.

Non a caso, le prime mosse dei Normanni furono dirette contro i Themi imperiali, al solo scopo di procacciarsi bottino. Astuti ed infidi di natura, colsero al volo l’opportunità offerta loro dalla ribellione del 1038 nel Thema di Longobardia, forse causata dal reclutamento di effettivi da mandare a combattere in Sicilia. La ribellione si rivelò talmente difficile da domare che nel 1040 lo stesso catepano d’Italia cadde in battaglia, e quattro mesi dopo si dovette registrare un’altra sconfitta romea. In questa situazione convulsa giocò un ruolo importantee il milanese Arduino, che, nonostante l’allontanamento dall’esercito di Maniace, era riuscito a farsi assegnare la topoteresia di Melfi dal catepano romeo. Forte di questa posizione, pur essendo, di fatto, un funzionario romeo, Arduino si recò ad Aversa e si fece mettere a disposizione trecento cavalieri normanni, al comando di una dozzina di capi, tra cui due figli di Guglielmo d’Altavilla, GuglielmoBraccio di Ferro” e Dragone, che erano stati anche loro mercenari nell’esercito romeo di Sicilia. Il milanese stipulò precisi accordi con i Normanni, prevedendo la divisione a metà del bottino che avrebbero fatto.

Con la forza militare in loro possesso, Arduino ed i Normanni occuparono Melfi, costringendo la popolazione a non combatterli, e mettendo a ferro e fuoco tutte le città vicine. La fama di feroci sanguinari che i Normanni meritatamente si stavano costruendo contribuì non poco alla scarsa resistenza dei centri da loro attaccati, facendo preferire la resa alla morte di tutti gli abitanti. Notiamo un particolare curioso nelle fonti coeve normanne, che mostrano negli invasori l’immotivata pretesa di essere signori dell’intera regione, al punto che le libere città imperiali che resistevano ai loro eserciti venivano dichiarate “ribelli” e come tali trattate.

La risposta imperiale non si fece attendere. Dall’impresa di Sicilia furono stornate truppe per ristabilire l’ordine in Puglia. Tra l’altro, questa riduzione delle forze contribuì non poco alla sconfitta dell’esercito romeo nell’isola. Inaspettatamente, data la superiorità numerica imperiale e la presenza di truppe d’elite del Thema orientale di Opsikion ( in latino obsequium, un tempo le truppe scelte dell’Imperatore) e di contingenti russi, l’esercito romeo, diretto ad assediare Melfi, fu sonoramente battuto a Venosa e poi di nuovo a Montemaggiore. L’anno successivo, il nuovo comandante romeo fu sconfitto e fatto prigioniero nella pianura fra Montepeloso e Monte Serico.

La sconfitta romea non trova giustificazioni presso gli storici moderni, spesso contagiati dall’entusiasmo dei cronisti normanni. Per parte nostra, noteremo solo che la tecnica della “lancia in resta” dovette risultare micidiale soprattutto nei confronti di fanterie dotate di corazze leggere, e che l’impresa di Sicilia sicuramente aveva assorbito le migliori truppe del catepanato d’Italia. Non è difficile immaginare il terrore dei terrazzani tematici italici opposti a guerrieri di professione vichinghi: per loro la fuga dovette risultare l’unica seria alternativa alla morte.

Le sconfitte imperiali modificarono il quadro politico dell’intera regione al punto che Arduino stesso, ormai diventato inutile, scomparve dalla scena, ed i Normanni, padroni di un vasto territorio nell’alta Puglia e nella Basilicata odierna, dovettero cercarsi un riconoscimento che legalizzasse le loro conquiste. Per ottenere questo scopo, astutamente essi  riconobbero come loro capo il fratello del principe longobardo di Benevento, tale Atenolfo, ma contemporaneamente si dichiararono pronti a riconoscere l’autorità dell’Imperatore, in cambio del mantenimento dei loro possedimenti. La situazione era tanto disperata che città imperiali come Bari furono costrette a venire a patti con gli invasori e garantirsi l’immunità versando tributi, mentre il superstite esercito imperiale non poteva fare altro che difendere le fortificazioni rimaste. Per riprendere il controllo della situazione, a Costantinopoli si pensò di liberare Giorgio Maniace dalla sua prigionia ed inviarlo in Puglia d’Italia, dove arrivò nel 1042.

Ma i Normanni non erano rimasti ad aspettare. Sfruttando le divisioni politiche nelle libere città imperiali, avevano proposto al barese Argiro, un capopopolo locale, di diventare loro capo, con il titolo di aulico di princeps et dux Italiae. La lotta si accese feroce, e sembra che atrocità furono commesse da entrambe le parti.

A Costantinopoli, sempre nel 1042, era stato detronizzato l’imperatore Michele V ed il suo posto era stato preso da Costantino IX, che richiamò Maniace e tentò una politica di accordi con i Baresi ed i Normanni coalizzati. Sul versante della rivolta la sua politica funzionò egregiamente: Argiro accettò di diventare funzionario dell’Impero, Bari tornò all’obbedienza ed i Normanni ottennero lo status di mercenari. Ma Giorgio Maniace, conscio dell’odio che suscitava a corte, uccise il suo successore designato e si proclamò Basileus ton Romaion, Imperatore dei Romani. Dopo alcune vicende, Maniace lasciò l’Italia per morire in battaglia in Macedonia contro le forze imperiali.

Non tutti i Normanni, però, erano contenti del trattamento da mercenari. Alcuni di essi, attestandosi a Melfi, si posero, allora, sotto la giurisdizione del principe longobardo di Salerno, riconoscendo come loro capo Guglielmo “Braccio di Ferro”, divenuto conte di Melfi.

Mentre i possedimenti imperiali in Puglia subivano altre sconfitte, la situazione si fece ancora più complicata per il sopraggiungere in Italia meridionale dell’imperatore franco Enrico III, che nel 1047 riconobbe la contea di Aversa a Rainulfo II e quella di Melfi a Dragone, succeduto al fratello l’anno precedente. Messi sullo stesso piano dei baroni longobardi, i Normanni si impegnavano a combattere contro i Romei, e la Calabria era il loro prossimo obiettivo.

Già dal 1048 Roberto il Guiscardo (il “brigante”, l’”astuto”), dopo un’altra sconfitta romea a Tricarico, venne inviato da suo fratello Dragone a stanziarsi nella valle del Crati.

L’Impero dei Romani non trovò altra soluzione che inviare Argiro come comandante di tutti i Themi occidentali italici e quello di Paflagonia. Egli, però, non aveva un esercito, ed era obbligato a muoversi facendo uso della diplomazia e degli intrighi, al punto che non dovette essere estraneo all’assassinio del conte Dragone. La morte del loro capo non scosse, però, l’impianto politico e militare normanno, così Argiro si decise a venire a patti con il papa di Roma, da secoli diventato ormai un capo politico e militare inquadrato all’interno dell’impero dei Franchi. Il papa Leone IX, nel 1053, mise insieme un esercito composto da truppe longobarde e italiche, rafforzate da soldati franchi di Enrico III, e tentò di raggiungere Argiro e le truppe imperiali romee. I Normanni compresero il pericolo e affrontarono separatamente i due eserciti alleati, sconfiggendo i Romei a Siponto e i Franchi del papa a Civitate. La battaglia di Civitate segna uno spartiacque nella storia dell’Italia meridionale: dopo la disfatta, il papa di Roma fu catturato dai Normanni e costretto a riconoscere un accordo segreto, che però possiamo facilmente intuire. I Normanni chiesero al papa il riconoscimento delle loro conquiste passate e future, in cambio di un generico atto di vassallaggio da parte loro.

Fu forse questo accordo segreto, che consegnava inerme ai Normanni i popoli ortodossi greci e longobardi della Calabria, della Lucania e della Puglia a pesare nello scisma d’Oriente ed Occidente del successivo anno 1054.

Il protagonista romeo di questa separazione, il patriarca Michele Cerulario, certamente incolpò il nobile barese Argiro della rottura con Roma, e fece in modo che lui e la sua famiglia fossero arrestati.

Già prima di Civitate, però, Roberto il Guiscardo si mosse in Calabria trovando ormai una debole resistenza imperiale. Il Guiscardo occupò Scribla, per poi porre il centro delle sue scorrerie nella roccaforte di San Marco. Nel 1052 vinse una battaglia campale presso Crotone e già nel 1053 saccheggiò ed incendiò un monastero presso Gerace.

Roberto, di concerto con il fratello Ruggero, dal 1056 intraprese un vero e proprio programma di conquiste sistematiche in Calabria. Il sistema di difesa romeo, concepito contro i Saraceni, incapaci di dare l’assedio alle fortezze più munite, si dimostrò incapace di resistere alla continua pressione esercitata da piccoli eserciti molto mobili, in grado di terrorizzare la popolazione locale e di portare offesa contemporaneamente in più punti. Il loro basso numero , in verità esagerato nelle fonti normanne, permetteva loro di alimentarsi all’interno della Calabria, razziando ciò che serviva loro. La presenza di centri fortificati, logisticamente posti non lontano dalla linea del fronte, consentiva anche di riparare bande armate che avessero incontrato difficoltà contro le truppe imperiali. Del resto, la possibilità di ottenere bottino e terre nella ricca Calabria meridionale continuava ad attirare sempre nuovi avventurieri e nullatenenti franchi, permettendo ai Normanni di disporre sempre di truppe fresche e pronte a tutto. L’avanzata normanna fu anche facilitata da una spaventosa carestia, probabilmente innescata dagli stessi saccheggi e violenze.

Il 1056 segna anche il primo assalto a Reggio, ma la città, capitale del Thema, era decisa a resistere ai Normanni, che si dovettero allontanare contando molte perdite. I Calabresi, che avevano resistito ai Saraceni, lottarono con coraggio contro i nuovi invasori. Approfittando di un temporaneo contrasto sorto tra i due fratelli d’Altavilla, le città conquistate si ribellarono ai padroni normanni, mettendo in grave crisi l’intera armata di conquista. La risposta normanna, fatta di violenza e brutalità, non si fece attendere.

Nel 1059 l’intera Calabria era stata conquistata, ma Reggio resisteva ancora. I Normanni, disperando di prenderla con la forza, tentarono di scendere a patti con la guarnigione imperiale e con i Reggini, ottenendo un netto rifiuto. Si ripresentava, così, la situazione strategica che, da Pirro in poi, aveva contraddistinto la Calabria romana: lasciare tutta la regione all’invasore e mantenere solo il controllo di Reggio e del suo porto. Decine di volte il piano aveva avuto successo, ma stavolta avvenne l’imprevedibile: i due funzionari imperiali responsabili della difesa concordarono con i Normanni la resa di kastron, a patto che lo stratego e la guarnigione potessero lasciare incolume la città. La guarnigione si rifugiò a Squillace, ma anche lì, assediata dagli Altavilla, si imbarcò nottetempo per Costantinopoli, abbandonando la Calabria ai Normanni.

Le cronache ci hanno lasciato la testimonianza dello stupore dei Normanni entrati a Reggio, nel vedere la ricchezza  e la bellezza architettonica delle case e delle chiese. La città era all’altezza del suo rango di capitale del Thema di Calabria. Finiva, così, la libertà del popolo reggino, d’ora in avanti soggetto al tacco di invasori sempre più estranei alla cultura locale ed indifferenti rispetto al progresso civile ed economico della città, ormai solo terra di conquista da sfruttare e depredare a piacimento.

Già dal 1057 Roberto aveva ereditato il titolo di Conte di Puglia, divenendo il principale comandante normanno in Italia, ma nel funesto 1059 la sua posizione era destinata a consolidarsi in modo definitivo. Dopo Civitate, infatti, Leone IX aveva tentato di mantenere i rapporti con Costantinopoli, ma dopo era avvenuto lo scisma, e, soprattutto, l’abate di Montecassino, il vero guardiano franco del regno Pontificio, aveva convinto il papa di cambiare radicalmente politica verso i Normanni. Si giunse, così, agli accordi di Melfi. Il papa Niccolò II, che intendeva rivendicare la sua autonomia anche nei confronti dell’imperatore germanico, credé di trovare nei Normanni un valido puntello, in grado di proteggere il fianco meridionale del suo stato. Fu quindi, a Melfi che il papa (oggettivamente, non si comprende a quale titolo e con quale autorità) riconobbe Roberto duca di Puglia, Calabria e Sicilia, quest’ultima ancora completamente in mano saracena. La conquista di Reggio permise a Roberto di essere incoronato Duca di Calabria all’interno della Cattolica reggina. Ci piace credere che, all’interno dell’attuale chiesa degli Ottimati, nei resti del pavimento in stile cosmatesco sia ancora visibile il tondo marmoreo circondato da spirali su cui si posava i piedi il duca nel momento della sua investitura.

Cominciarono tempi duri per Reggio. Il duca costruì un palazzo in città, utilizzando le preesistenti strutture del Pretorio romeo, ma la pianta di questa costruzione non è completamente chiara, al punto che saremmo tentati di attribuire a parte del palazzo ducale i resti di un muro a scarpa di epoca normanna trovato a Piazza Italia nei recenti, inediti, scavi. Ciò sarebbe confermato dal tesoretto di tarì aurei normanni e dal tarì rinvenuti negli scavi archeologici, che ci pare siano da mettere in relazione con dimore dei conquistatori piuttosto che con case di Reggini invasi.

Ma i Normanni avevano paura della popolazione locale greca, che li odiava e che era sempre pronta  a ribellarsi, continuando per secoli a contare gli anni facendo menzione dell’Imperatore di Costantinopoli e dell’anno romano. Per ovviare a questa situazione, nel contado, i nuovi padroni normanni occuparono le fortezze romee, riadattandole a Motte, cioè a torri di difesa per la propria famiglia ed i propri soldati: il nemico non era più costituito dai Saraceni, ma dai greci calabresi. A Reggio, ma anche in altre città, i Normanni si costruirono una città separata da quella dei Greci, entro la quale si rinchiusero.

Il kastron romeo si estendeva a protezione del porto, utilizzando a nord il Vallone di Via Giulia come rinforzo alle mura, e avendo come limite a occidente la spiaggia, a mezzogiorno l’alveo del Calopinace e a oriente la collina del castello. I Normanni lasciarono in piedi la muraglia meridionale, che li separava dai Reggini, costruendo una piccola porzione di mura, tale da racchiudere il nuovo Duomo, con il palazzo del vescovo franco, e le abitazioni dei nobili e della guarnigione. Il fulcro della resistenza fu posto presso l’area dell’attuale castello, dove i Normanni eressero un donjon, una torre difensiva sul modello franco. Per accedere alla città greca fu lasciata attiva una vecchia porta romea, che noi conosciamo con il nome di “Menza Porta” (che le fu dato quando la muraglia si deteriorò e cominciò a franare), e sappiamo che essa era situata presso l’attuale Piazza Camagna. Si venne a creare una convivenza forzata di due etnie, che vivevano separate, seppure vicine: i Reggini greci, con il loro centro di culto nella Cattolica, vicino Piazza Italia; i Normanni di lingua franca con il loro duomo, posto all’incirca dove è quello attuale, con un vescovo titolare che non metteva nemmeno piede in città e con un clero latino rinchiuso all’interno della piccola città normanna. La lotta nei secoli futuri era segnata: i conquistatori avrebbero dovuto allontanare i Reggini da Reggio, prendere loro tutte le terre, relegandoli da liberi contadini a servi della gleba, distruggere la grandezza della cultura reggina, annullando la volontà di riscatto e di riscossa con l’ignoranza e la crapula.

Ma non bastava: la fedeltà dei Reggini alle loro tradizioni doveva essere punita. In progresso di tempo i Normanni spostarono la residenza del duca di Calabria a Mileto, dove Ruggero I si fece costruire un palazzo e dove fu sepolto. Il segreto della seta fu gradualmente esteso al resto della Calabria, cercando di fare Catanzaro, che era una piccola fortezza romea, un centro per l’esportazione serica. I Normanni , che non si fidavano di Reggio, promossero il ruolo del porto di Messina, fino all’epoca quasi sussidiario rispetto a quello reggino, addirittura costruendo un palazzo reale ed una zecca nella città siciliana. Messina, che aveva perso la propria identità culturale, era certamente più controllabile della colta e tradizionale Reggio.

Presa Reggio, i Normanni cominciarono subito la conquista della Sicilia, sfruttando abilmente le divisioni all’interno della compagine saracena e mettendo gli emiri uno contro l’altro. La nuova conquista, la cosiddetta “crociata” di Sicilia, tenne impegnati i Normanni per quasi un ventennio, ponendo il grave problema della gestione di un’isola che era stata quasi completamente colonizzata da Berberi islamici, con una gestione del catasto e dell’amministrazione fortemente in ritardo rispetto alla Calabria romea, per riordinare la Sicilia dal punto di vista amministrativo, oltre che per continuare a governare il resto dei possedimenti, i Normanni dovettero, inevitabilmente, appoggiarsi alla classe colta dei Calabresi, soprattutto dei funzionari reggini, che ricevevano l’istruzione necessaria per svolgere i compiti amministrativi. La Sicilia fu, così, amministrata, nei primi tempi normanni, da funzionari greci, e il sistema amministrativo imperiale fu esteso a tutto il regno. Con la conquista di Palermo, però, i Normanni spostarono nella capitale saracena dell’isola la sede del potere del futuro regno normanno, mantenendone attiva ed efficiente la segreteria araba.

Niente è meglio delle monete per comprendere la molteplicità e la complessità di quello che sarà il Regno di Sicilia normanno. Arrivati come razziatori, i Normanni non avevano un modello statale da imporre ai Longobardi, Romei e Saraceni, che abitavano il loro dominio. Anche dal punto di vista numismatico la situazione sul terreno era difficile da gestire: i Longobardi usavano come moneta i tarì di lega aurea, che imitavano i robain saraceni persino nelle legende scritte in arabo in caratteri cufici; i Romei avevano la moneta imperiale in oro, i nomismata, ed in rame, i folles, ed erano gli unici ad avere una economia realmente monetaria, con scambi giornalieri di moneta anche per gli acquisti più modesti; i Saraceni avevano il robai d’oro, che era diventato di lega in seguito alle difficoltà della guerra contro i Normanni, e, per i piccoli scambi, la kharruba, piccolissima moneta d’argento. Come mettere ordine finanziario? La risposta fu semplice e ingegnosa: i Normanni adottarono tutte le principali valute del regno, coniando ektaria sul modello dei robain saraceni di lega d’oro e follari di rame, inizialmente del peso dei folles, ma calcolando tutte le somme con una moneta di conto, il tarì, che al principio era realmente monetato come tarì di Amalfi. Tutte le cifre erano rapportabili al nuovo tarì di conto: il robaine valeva tre, l’ektarion due, il nomisma dodici. Tutte le coniazioni furono accentrate nella zecca di Messina, con quella di Palermo come sussidiaria. La coniazione di un nominale in argento, indispensabile per i domini di Puglia, in cui circolavano denarii di tipo franco, fu realizzata dalla zecca di Palermo. Visto che la nuova moneta doveva circolare solo nel ducato pugliese, fu chiamata prima Ducale e poi, dopo una riforma, Apuliense, e non sono state ritrovate in Calabria e Sicilia.

Quando con Ruggero II, nel 1140, i possedimenti normanni divennero il Regno di Sicilia, abbiamo un’altra trovata astuta degli Altavilla: il re di Sicilia, pur dichiarandosi tale, prese l’iconografia e gli attributi dell’Imperatore romeo, evidentemente per rendersi completamente accetto alla popolazione locale. Si potrebbe dire: “cambiare tutto perché nulla cambi”. Del resto, già lo stesso Roberto, più volte imitato dai suoi successori, aveva tentato di conquistare l’Impero Romano e la stessa Costantinopoli: come nel Romanzo di Alessandro, il dominio di Reggio legittimava l’Imperatore Romano.

Nel 1140, ad Ariano, il re Ruggero stabilì la costruzione della monarchia e dell’amministrazione del regno. Il Gran Camerario fu costituito ministro per la fiscalità, e Camerari vennero inviate nelle Provincie per sovraintendere all’esazione delle tasse. A Reggio, com’è naturale, risiedeva il Camerario per il Ducato di Calabria. Per il resto delle funzioni amministrative Ruggero mantenne il precedente sistema romeo, con gli strateghi ed i logoteti (funzionari contabili).

Un cronista arabo che visitò Reggio nel periodo normanno la descrive come piccola ma molto abitata, con orti e alberi da frutto. Sembra che i Normanni introdussero nel Regno di Sicilia la coltivazione delle cannameli, ovvero della canna da zucchero.

Alla lunga, la convivenza con i Normanni sembrò ai Romei di Calabria tollerabile, sia per il ruolo assunto dalla classe colta ellenofona  all’interno del Regno, sia anche per una accorta politica religiosa, che mirava a tranquillizzare gli ortodossi di Calabria. In verità, però, si stavano ponendo le basi per la distruzione culturale del popolo reggino, che passava necessariamente attraverso il problema religioso. Ai Normanni, visti i numeri in campo, bastò assicurarsi il possesso delle proprietà ecclesiastiche, operando senza suscitare la reazioni dei Calabresi. Il problema dello scisma, che non era percepito a quel tempo nemmeno dallo stesso clero, fu risolto rimettendo Calabria e Sicilia sotto la giurisdizione del papa di Roma, senza suscitare scandalo, perché in linea con il principio romeo dell’autorità politica coincidente con quella religiosa, e la guerra era stata persa. Del resto, il clero locale continuò a sentirsi pienamente ortodosso ed a resistere alle innovazioni dei Franchi, persino a quelle sostenute dallo stesso papa. I preti continuarono, così, a sposarsi, a celebrare in greco con pane lievitato, a rifiutare il culto delle statue ed a mantenere, invece, quello delle icone. La resistenza agli usi franchi non si è spenta mai nel successivo millennio, ed ancora oggi una piccola comunità greca reggina ortodossa rimane fedele alle tradizioni dei Padri. Finché i numeri lo permisero, il culto ortodosso rimase maggioritario a Reggio, ma la città, gradualmente, fu svuotata dagli abitanti autoctoni e divenne sempre di più dimora di conquistatori e guarnigioni, assumendo un carattere di estraneità con il territorio circostante, che ancora oggi rappresenta un problema per lo sviluppo cittadino. Quando Reggio fu persa, la resistenza culturale si spostò nelle campagne, ed ancora adesso nell’area grecanica sopravvive quella lingua che fu parlata dall’intera provincia, e che è rimasta protetta dall’asperità delle montagne della Bovesia e dalla tenacia dei Calabresi.

Reggio era troppo importante perché il suo vescovo rimanesse ortodosso. Dal suo brebion, forse redatto al momento di passaggio da Costantinopoli a Roma, conosciamo l’ampiezza dei suoi possedimenti e delle sue terre. I Normanni non potevano lasciare una tale ricchezza in mano ai reggini, e così vendettero la carica di Metropolita di Calabria, impedendo al legittimo detentore, Basilio, di prenderne possesso. Basilio non si dette mai per vinto, e le sue lettere suonano come il rimpianto della libertà reggina caduta sotto il dominio dei barbari. Per rendere meno dolorosa la scelta del nuovo vescovo franco, i Normanni tentarono di affidare Reggio a San Brunone di Colonia, già in fama di santità, ma il monaco si rifiutò, fondando però nell’odierna Serra San Bruno la celebre abbazia.

Il vero problema dei dominatori era costituito dai santi monaci italogreci di Calabria, le cui  migliaia di monasteri e romitori costellavano tutte le valli e le montagne calabresi. Una lotta contro questi monaci, detentori dell’anima calabrese, sarebbe stata perduta in partenza. I Normanni si accontentarono di porre tutti i monasteri della provincia reggina sotto un Archimandrita di etnia franca, ovviamente residente a Messina. La ricchezza dei monasteri, grazie anche alla pace riacquistata, portò ad un periodo di grande fioritura del monachesimo italogreco, con splendide figure di santi, tutte contrassegnate dalla volontà di mantenere la tradizione dei Padri e di contrastare le innovazioni liturgiche e teologiche dei Franchi. Appartengono al periodo della resistenza culturale San Filareto di Seminara, la cui umiltà era tanta che solo dopo la morte apparve la grandezza della sua santità, San Luca vescovo di Bova, instancabile riorganizzatore del culto ortodosso nel Reggino, San Leo di Africo e Bova, ancora oggi veneratissimo patrono dei due paesi, San Luca di Melicuccà, condannato a morte dai Franchi per motivi religiosi, e riparato sull’Athos, San Cipriano di Reggio, medico anargiro (che non si faceva pagare) ed igumeno del Monastero di San Nicola di Calamizzi, il più celebre monastero reggino e grande centro culturale con uno scriptorion celebre per la copiatura di manoscritti letterari e religiosi in greco. Il monastero di San Nicola e la vicina chiesa di furono vittime di un’incursione saracena guidata da IbnelWerd. Nella battaglia che ne seguì, la vittoria fu attribuita dai Normanni all’aiuto di San Giorgio, che divenne protettore della città di Reggio

I re Normanni si proclamarono spesso protettori dei monasteri ortodossi reggini e calabresi, ma aprirono subdolamente il terreno a successive conquiste, permettendo l’apertura di conventi benedettini in località strategiche. Da questi centri irraggiatori, il monachesimo latino, estraneo alla tradizione  ed alla cultura locali, e praticato da Franchi provenienti dall’estero, gradualmente scalzò i monasteri greci, che, dopo alcuni secoli, furono ridotti entro un nuovo ordine, detto di San Basilio (mai creato, in effetti, da San Basilio), ed affidati ad abati commendatari, percettori del reddito delle proprietà monastiche che, con il loro lassismo, ridussero presto alla rovina. Dopo il Concilio di Trento e la Controriforma cattolica, la Santa Inquisizione ed i vescovi spagnoli si incaricarono di distruggere l’anomalia calabrese, cosa che fu portata a compimento nel XVII secolo. Non è un caso, a nostro avviso, che le ultime figure di intellettuali reggini e calabresi di respiro internazionale siano dello stesso periodo. In seguito, Reggio si ripiegò su se stessa, e se il reggino Lorenzo Bendici, ancora nel XVII secolo, fu responsabile dei monasteri latini di Armenia (peraltro litigando ferocemente con il vescovo latino di Armenia, Paolo Piromalli, di Siderno), responsabile delle missioni in Persia ed in Africa, e poteva avere un fratello che era Provinciale dei Domenicani di Costantinopoli, grazie alla conoscenza del greco ed al livello di istruzione che si poteva ottenere a Reggio, dopo una generazione questi orizzonti diventarono solo un ricordo.

Eppure in Calabria, anche sotto il tacco latino, l’incontro tra Oriente e Occidente fu sempre fecondo. Basti pensare al ruolo avuto dal monastero di Valletuccio di Melito nella riforma francescana dei Cappuccini, oppure al calabrese Giocchino da Fiore, o a San Francesco di Paola, tutti in bilico tra innovazioni latina e tradizione greca, e in cui gli influssi orientali diedero molto frutto.

 

Tratto da “La storia di Reggio a fumetti” commissionato dall’Amministrazione Comunale di Reggio Calabria. Testo del professore Daniele Castrizio

 

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1) STORIA DI REGGIO: LE MITICHE ORIGINI

2) LA STORIA DI REGGIO: LA FONDAZIONE GRECA

3) LA STORIA DI REGGIO: LA FASE ARCAICA

4) LA STORIA DI REGGIO: LA TIRANNIDE DEGLI ANASSILAIDI

5) STORIA DI REGGIO: LA NUOVA DEMOCRAZIA E LA GUERRA DEL PELOPONNESO

6) STORIA DI REGGIO: LE GUERRE CONTRO DIONISIO IL VECCHIO E LA CONQUISTA DI RHEGION

7) STORIA DI REGGIO: DIONISIO IL GIOVANE, I BRUTTII E LA FONDAZIONE DI FEBEA

8) STORIA DI REGGIO: L’ARRIVO DI TIMOLEONTE

9) STORIA DI REGGIO: L’EPOCA DI AGATOCLE

10) STORIA DI REGGIO. LA GUERRA PIRRICA: RHEGION NELL’ORBITA DI ROMA

11) STORIA DI REGGIO: LA CONDIZIONE DI RHEGION SOTTO I ROMANI

12) STORIA DI REGGIO: LA PRIMA GUERRA PUNICA

13) STORIA DI REGGIO: LA GUERRA ANNIBALICA

14) STORIA DI REGGIO: DALLA FINE DELLA GUERRA ANNIBALICA AL BELLUM SOCIALE

15) STORIA DI REGGIO: SPARTACO

16) STORIA DI REGGIO: IL BELLUM SICULUM

17) STORIA DI REGGIO: L’ARRIVO DI SAN PAOLO E LA CRISTIANIZZAZIONE DI REGGIO

18) STORIA DI REGGIO: IL PORTO DI CALIGOLA

19) STORIA DI REGGIO: I TERREMOTI

20) STORIA DI REGGIO. LA CHORA REGGINA IN EPOCA ROMANA: I CHORIA E LE VILLAE

 21) STORIA DI REGGIO. GLI EBREI A REGGIO E NEL REGGINO: RHEGION E L’ORIENTE

22) STORIA DI REGGIO: IL VINO REGGINO E LA COLTURA DELLA VITE

23) STORIA DI REGGIO: L’ARRIVO DEI BARBARI ED IL RAPPORTO CON L’ORIENTE

24) STORIA DI REGGIO: REGGIO E I ROMANI

25) STORIA DI REGGIO: LA STATUA MIRACOLOSA DELLO STRETTO

26) STORIA DI REGGIO: REGGIO CRISTIANA

27) STORIA DI REGGIO: REGGIO E I GOTI

28) STORIA DI REGGIO: I  LONGOBARDI IN CALABRIA

29) STORIA DI REGGIO: COSTANTE II A REGGIO E LA COSTITUZIONE DEL THEMA DI CALABRIA

30) STORIA DI REGGIO: LEONE III E L’ICONOCLASTIA

31) STORIA DI REGGIO: CRONACA DELL’INVASIONE ARABA

32) STORIA DI REGGIO: I PROFUGHI SICILIANI

33) STORIA DI REGGIO: LA LOTTA PER LA CALABRIA

34) LA STORIA DI REGGIO: L’IMPRESA DI GIORGIO MANIACE

36) STORIA DI REGGIO: LA CANZONE D’ASPROMONTE

37) STORIA DI REGGIO: ENRICO VI

38) STORIA REGGINA: FEDERICO II E REGGIO

39) STORIA DI REGGIO: GLI ANGIOINI