LA STORIA DI REGGIO: LA FONDAZIONE GRECA

Fin dai tempi più remoti, come provano le ricerche archeologiche e avevano già affermato le leggende locali, la costa reggina era stata frequentata assiduamente da mercanti orientali, soprattutto da Fenici (“i Rossi”) e da Ioni (“i Viola”). I contatti con la Grecia micenea portarono ad una crescita culturale e materiale di tutti i popoli indigeni di quella che, in seguito, fu chiamata Megale Hellas, Magna Graecia. Non si trattò soltanto di commercio di oggetti o di ricerca di metalli (in Calabria era disponibile del buon rame, ricordato perfino da Omero nei suoi poemi), ma ci fu un vero e proprio scambio di uomini e tecnologie.

Celebre è il caso degli artigiani micenei rimasti nell’attuale Calabria a lavorare in botteghe da loro impiantate. Ancora più importante è quello della “principessa” calabrese presa in moglie da un “signore della guerra” cicladico, che fu scortata da una “guardia d’onore” di guerrieri italici calabresi. I poemi omerici dimostrano con grande chiarezza che i Greci e i Fenici conoscevano bene le “vie del mare”, e soprattutto quelle che noi chiamiamo le “autostrade”, cioè le rotte principali, come quella che lambiva lo Ionio reggino e attraversava lo Stretto.

Nell’VIII sec. a.C. questa summa di conoscenze si concretizzò in vere e proprie ktiseis (“fondazioni”) di poleis, veri e propri stati indipendenti sul modello delle madre patrie piuttosto che deduzioni coloniali subordinate, come piaceva credere alla storiografia ottocentesca. Il sapere pratico maturato in secoli di contatti portò gruppi di apoikoi (“usciti dalle case paterne”, cioè colonizzatori) ad impossessarsi – con la forza, con l’astuzia o anche acquistando – i più vantaggiosi porti naturali e le migliori terre coltivabili.

Sullo Stretto di Scilla e Cariddi, verso il 750 a.C., fu occupata la falce del porto di Messina, probabilmente da un gruppo di pirati e mercanti di Cuma campana e della polis euboica di Calcide. Non stupisca la loro doppia natura “professionale”: a quel tempo, Greci, Fenici ed Etruschi svolgevano indifferentemente il commercio e la pirateria, secondo le difese incontrate. Sbarcati presso un centro abitato, se c’era una buona guardia di guerrieri locali, si impiantava un mercato, altrimenti ci si poteva dare alla rapina e al saccheggio. Anche le altre imbarcazioni commerciali incontrate, che, peraltro, si comportavano nel medesimo modo, spesso erano oggetto di arrembaggio.

La fondazione della nuova apoikia (“fondata da quelli usciti dalle case paterne”, traducendo un po’ liberamente) dovette conciliarsi con il passato antico del sito, con la sua storia e la sua tradizione, giacché i nuovi arrivati mantennero il nome indigeno di Zankle (dal siculo zanklon, che significa “falce”), identificando la falce del porto con quella mitica, che era servita a Crono per evitare il padre Urano.

Successe in quella occasione ciò che si dirà poi per i colonizzatori di Calcedone riguardo a Bisanzio, cioè che si stanziarono di fronte al posto migliore, scegliendo il peggiore. Dopo qualche anno, infatti, proprio dagli Zanklei partì la richiesta alla madrepatria, Calcide, di inviare un gruppo di colonizzatori per occupare Reggio.

A Calcide, in quegli anni, si era verificata una gravissima pestilenza ed il governo della città, sentiti i sacerdoti, aveva deciso di offrire in voto ad Apollo un decimo della popolazione in cambio della guarigione. Il voto formulato andava obbligatoriamente sciolto, e fu così che la decima parte dei Calcidesi si imbarcò sulle navi per trovare una nuova patria in cui vivere.

Ma tutto avvenne nel segno di Apollo: l’ecista (il “fondatore”) a capo dei coloni, chiamato Antimnestos o Artimedes secondo le due tradizioni contrastanti, si recò presso l’oracolo di Apollo a Delfi per chiedere dove avrebbe dovuto formare la nuova polis con la benedizione del dio.

La Pizia, seduta sul tripode delfico e raggiunta dai vapori inebrianti che si sprigionavano da una fenditura della roccia, rispose versi incomprensibili, com’era suo costume, ma i sacerdoti di Apollo furono più espliciti, anche se ammantarono il responso di enigmi.

All’ecista fu ordinato di dirigersi verso l’Occidente e di fermarsi solo quando avesse visto “un maschio abbracciato ad una femmina, ma gli venne anche detto – con più chiarezza, almeno per un provetto marinaio, esperto di rotte – di raggiungere Pallantion, presso il fiume Apsia, definito “il più sacro tra i fiumi”, perché, soprattutto, “tua sarà la terra Ausonia”. Le indicazioni erano chiare: bisognava raggiungere Reggio, dove, presso il tempio della divinità identificata dai Greci come Artemide Fascelide, sul promontorio chiamato Pallantion (noi lo conosciamo come “Punta Calamizzi”) – che era, per inciso, lo stesso nome del santuario più venerato di Artemide Fascelide in Arcadia – si gettava in mare il fiume Calopinace, chiamato all’epoca Apsia.

Il mito vuole che i coloni, arrivati nel posto indicato dagli avveduti sacerdoti, identificarono un fico su cui si era avvinghiata una vite il “maschio e la femmina abbracciati” cantati da Apollo. Da allora, la polis ebbe un culto straordinario per Apollo – invocato con i nomi di Archagetas (“guida”, in memoria della fondazione “pilotata” dell’oracolo delfico) e di Rheginos (“Reggino”) – e per la sua mitica sorella Artemide.

La tradizione vuole che ai coloni calcidesi si unissero durante il viaggio dei Messeni del Peloponneso, che erano fuoriusciti dalla loro polis per non avere accattato l’oltraggio alle Spartane avvenuto a Limne. Lì, in un santuario di confine dedicato ad Artemide, tra la terra dei Messeni e quella degli Spartani, era avvenuto che un gruppo di giovani donne spartane, recatesi al tempio per celebrare un culto, era stato violentato da alcuni Messeni, che si sentivano oltraggiati dalla presenza di straniere nel loro territorio. Dalla pretesa del governo messeno di proteggere gli stupratori ed i profanatori, tutti delle migliori famiglie della città, nacque non solo la “guerra messenia”, che portò alla conquista della regione da parte degli Spartani, ma anche la defezione di un gruppo di cittadini, che si sentirono offesi ed indignati per la violenza, non solo perpetrata ma anche difesa.

Questi Messeni, che si erano sentiti abbandonati dalla dea Artemide, per difendere la quale avevano rinunciato a cose terrene, ricevettero l’ordine oracolare di seguire i Calcidesi a Reggio, e di ringraziare la dea, che li aveva preservati dalla rovina della Patria.

Reggio, come abbiamo visto era abitata da indigeni siculi, forse della tribù degli Itali. La conquista dell’insediamento, posto presso la tomba di Giocasto, non dovette essere incruenta, anche se non abbiamo prove dirette degli eventi di allora. Il villaggio di palafitte scoperto in scavi archeologici presso Piazza Garibaldi, infatti, in cui si sono riconosciute tracce di distruzione da incendio, è stato datato scientificamente, in anni ormai lontani, ad un periodo ben precedente alla venuta dei Greci. Come che fu, anche nel caso di Reggio gli Elleni non vollero cambiare il nome indigeno della città, mantenendolo.

Persa poi la loro memoria storica, molti secoli dopo qualche storico ancora ricordava che il nome era connesso con un eroe (Giocasto, il re), per non avere un’origine comune. In tempi recenti, invece, si è preferito dare eccessivo credito ad una palese paretimologia del tragediografo Eschilo, che, volendo grecizzare l’Occidente, riconduceva il nome della polis al verbo rhegnymi, che significa “rompere”, con allusione alla rottura dell’unione tra Calabria e Sicilia in seguito ad eventi sismici.

 

Tratto da “La storia di Reggio a fumetti” commissionato dall’Amministrazione Comunale di Reggio Calabria. Testo del professore Daniele Castrizio

 

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