STORIA DI REGGIO: LEONE III E L’ICONOCLASTIA

È molto nota la storia dei monaci romei che riuscirono a carpire ai Cinesi  il segreto della produzione della seta, portando a Costantinopoli dei bachi nascosti all’interno di un bastone cavo. Ma il vero problema, si scoprì, era rappresentato dal nutrimento dei bachi, che mangiavano soltanto foglie di un determinato tipo di gelso, pianta che non si riusciva a fare attecchire se non in Siria. Il Governo romeo, conoscendo le particolari e favorevoli condizioni climatiche dell’attuale provincia di Reggio (fin dall’antichità greca considerata una sorta di serra naturale), tentò l’esperimento di piantare il gelso per i bachi nei dintorni della città, ottenendo risultati sorprendenti.

La conseguenza fu che a Reggio si convertì la gran parte del sistema produttivo ed agricolo. Se Nel V secolo tutto ci parla di vite e di vino, dopo due secoli si assiste ad un graduale abbandono dei vigneti (tutti i palmenti ritrovati non sembrano più in uso dopo il VII secolo e ad un’economia che privilegia il più remunerativo gelso. Questa linea di tendenza sembra confermata dal registro della Metropolia reggina, in greco brebion, databile, dopo la scoperta della menzione di monete di Ruggero I, ai primi anni della dominazione normanna alla fine dell’XI secolo. Nel brebion la produzione di vino è ampiamente surclassata da quella di seta grezza, al punto che l’Arcivescovo di Reggio guadagnava all’anno dalla vendita della seta una cifra pari al tesoro militare romeo (sono stati ricostruiti ben quattro milioni di monete d’oro all’anno). Ma la diocesi era solo uno dei proprietari terrieri, quindi bisognerà moltiplicare la cifra ottenuta di molte volte.

In Italia, da quello che si riesce a ricostruire, la raccolta delle tasse doveva essere effettuata tramite le varie diocesi. La somma era convogliata a Ravenna o a Roma, secondo il grado di affidabilità del papa di Roma e della situazione militare con i Longobardi. Da Ravenna, o Roma, l’ingente massa di denaro era poi inviata a Costantinopoli, tolto ciò che serviva per il pagamento degli eserciti e dei funzionari in Italia.

Questa situazione durò fino a che, dopo la caduta di Ravenna, il Papa di Roma, sempre meno un vescovo e sempre di più il vero governatore del Ducato di Roma, sentendosi minacciato dai Longobardi e non sufficientemente tutelato dall’esercito romano, che cercava di salvaguardare gli interessi di tutti i Romani e non solo di quelli del Lazio, cominciò a stringere alleanze autonome con i barbari. In almeno un caso il papa arrivò a trattenere le tasse italiane, non inviandole a Costantinopoli, costringendo l’imperatore a fare intervenire l’esercito. Pretestuosamente, il papa cominciò, gradualmente, a ritenere propri gli introiti del latifondo imperiale in Calabria e Sicilia, accampando pretese riguardo a un “Patrimonio dei Santi Apostoli”, poi divenuto “di San Pietro”, che forse, in origine, doveva essere un lascito di terreni grazie al quale l’imperatore Costantino aveva dotato di mezzi di sostentamento le Basiliche di San Pietro e di San Paolo, da lui edificate a Roma.

La nuova situazione internazionale aveva messo il papa in grave sospetto agli occhi della corte imperiale. Ormai sembrava agire come il vero padrone del Ducato di Roma, ed era inconcepibile che gli si affidassero i rilevanti introiti del ricco Thema di Sicilia. Il Patrimonio dei Santi Apostoli, poi, se si trovava in territorio imperiale, non poteva più certo essere amministrato da un vescovo fuori dall’Impero, e lo stesso dicasi delle diocesi del Thema di Sicilia, che certamente non potevano avere come patriarca un vescovo straniero.

Come si può comprendere agevolmente, dal punto di vista politico, intorno al 730, all’imperatore Leone III non rimase altra scelta che rimettere ordine amministrativo e contabile in uno dei Themi più ricchi dell’Impero. Fu, così, inviata una commissione composta da quattro funzionari del kommerkios, il ministero preposta alla riscossione dei tributi, e fu organizzata una riscossione delle tasse che tagliasse fuori il papa di Roma e che, soprattutto, fosse gestita da pubblici ufficiali imperiali. Da fonti romee ostili a Leone III, sembra che, in seguito alla riforma fiscale, circa un terzo dei Calabresi e Siciliani che non pagavano tasse furono costretti a versarle all’erario. Da come sembra, però, probabilmente le tasse non gravarono sui poveri contadini, ma si trattò di rendere tassabili alcune rendite terriere ecclesiastiche.

Per evitare che eventuali contrasti tra vescovi del Thema di Sicilia potessero essere portati davanti al papa di Roma, l’imperatore decise anche di subordinare le diocesi ecclesiastiche di Calabria e Sicilia direttamente al Patriarca di Costantinopoli.

Non si trattò certo di una “vendetta dell’imperatore”, come pure è stato scritto, anche di recente, e nemmeno di una “guerra di religione”, per imporre il rito greco alla diocesi della Magna Grecia, tanto più che anche a Roma il papa celebrava in greco.

Leone III, e suo figlio Costantino V, sono anche ricordati per le lotte iconoclaste che fecero scoppiare in tutto l’Impero dal 726. Si tratta della famosa disputa sulla liceità di venerare le immagini sacre, le icone. Il mondo ortodosso (cioè l’intero ecumene cristiano fino alle conquiste dei Franchi) ha, fin dai primi tempi, incoraggiato la venerazione delle immagini, ma bisogna riconoscere che a volte presbiteri e fedeli arrivarono a delle esagerazioni, quale quella di mettere nel calice del vino della Comunione un frammento di pittura di icona. L’iconodulia riconosce nell’immagine sacra la presenza vera del Cristo, della Vergine o dei Santi, rappresentando così in modo visibile un’autentica presenza invisibile. La venerazione delle icone non contraddice, secondo gli Ortodossi, il precetto dei dieci comandamenti di non adorare idoli, perché altrettanto forte è per loro il divieto di dare culto alle statue, come invece facevano i pagani. I membri della dinastia Isaurica, al contrario, forse suggestionati dalla teologia araba ed ebraica (provenivano, infatti, dalla Siria), che imponeva il divieto assoluto di rappresentare in alcun modo la Divinità, si sforzarono di utilizzare la loro autorità imperiale, che li poneva a capo dell’intera cristianità, per abbattere il culto delle immagini sacre, lasciando soltanto quello per la croce senza Crocefisso, arrivando addirittura ad uccidere gli oppositori.

La legge iconoclasta trovò molti fedeli contrari, soprattutto fra i monaci, veri artefici della lotta di resistenza, anche se gli imperatori cercarono in ogni modo di farla applicare, rimuovendo i vescovi iconoduli e sostituendoli con chierici fidati. Per molti decenni la situazione ecclesiastica dovette essere grandemente confusa. Ne è prova un episodio avvenuto in quegli anni a Reggio, in cui una delegazione della diocesi di Catania venne a trovare il Metropolita reggino, fautore del culto delle icone, di nome Cirillo, per fargli indicare ed ordinare il nuovo vescovo dei Catanesi, ignorando il Metropolita di Sicilia a cui spettava tale onore. Probabilmente, il vescovo di Siracusa sarà stato una iconoclasta filogovernativo, e perciò sgradito alla popolazione iconodula di Catania. La scelta del Metropolita di Reggio fu azzeccata: egli propose il diacono Leone, originario di Ravenna, probabilmente già soldato dell’esercito romano, che divenne il più grande vescovo di Catania, San Leone ancora oggi venerato in tutto il mondo ortodosso.

L’attaccamento di Calabria e Sicilia al culto delle immagini fu reso molto chiaro nel Concilio di Nicea dell’anno 787, in cui le icone furono riabilitate per volere dell’imperatrice Irene. In quel contesto, i discorsi più importanti furono pronunciati dal clero siciliano e calabrese, e, di più, fece molta impressione la Vita di San Pancrazio di Taormina, in cui appariva manifesta l’antichità e la legittimità canonica del culto delle immagini. La Vita di San Pancrazio, a cui era dedicato il monastero che si trovava dove ora è il Castello Ruffo di Scilla, divenne talmente famosa, che ci sono rimaste perfino delle traduzioni in slavo.

 

Tratto da “La storia di Reggio a fumetti” commissionato dall’Amministrazione Comunale di Reggio Calabria. Testo del professore Daniele Castrizio

 

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