LA STORIA DI REGGIO: LA TIRANNIDE DEGLI ANASSILAIDI

La fine del VI sec. a.C. e gli inizi del secolo seguente furono caratterizzati da una serie di conflitti, forse generati dal compimento dell’espansione delle colonie italiote ai danni degli indigeni e dagli attriti connessi al loro divenire confinanti. È in questo momento che bisogna collocare storicamente una o più battaglie in campo aperto tra Reggini e Zanklei, di cui abbiamo traccia nelle armi di Reggini uccisi in guerra dedicate dai vincitori di Zankle al tempio di Zeus ad Olimpia. La sconfitta, si crede, dovette scatenare lo scontento popolare ed esasperare la lotta politica. Emerse allora la figura di un uomo forte, appartenente ad una delle più illustri famiglie della polis, che vantava come antenato un re della MesseniaAnassila (nelle fonti chiamato Anaxilas AnaxilaosoAnaxileos) – un cui omonimo, secondo le fonti era stato al governo della polis di Rhegion in un’epoca precedente – con un colpo di mano si impossessò dell’acropoli di Reggio, asserragliandosi con i suoi seguaci. Il governo oligarchico gli cedette tutti i poteri, lasciandolo tiranno della polis.

Uno dei provvedimenti principali presi dal nuovo despota fu la fortificazione della rupe di Scilla, con la creazione di una base militare navale nel suo porto. Questi provvedimenti, oltre a difendere lo Stretto dai pirati etruschi, rendevano i Reggini padroni assoluti del braccio di mare che separa l’Italia dalla Sicilia. È da quest’epoca in poi che, nelle fonti antiche, Reggio compare come una guardiana del Basso Tirreno, vera e propria “poliziotta del mare”.

Non come Anassila, invece, si era comportato verso i propri concittadini il grande poeta Ibico reggino. Secondo le fonti, il poeta era dovuto partire esule dalla sua amata patria per evitare di diventarne il tiranno. La sua vita da esiliato, Ibico la trascorre presso le corti fastose amanti dell’arte, come quella del tiranno Polykrates di Samo. I suoi versi, che cantano la natura rigogliosa dell’Aspromonte reggino, rimasero imperituri, e tutta la sua esistenza fu ammantata da un’aura di leggenda. Si narra che la sua uccisione fu vendicata da uno stormo di aironi, che indicarono ai Reggini i colpevoli del misfatto. La sua tomba, a Rhegion, fu onorata e cantata per tutta l’antichità, meta “turistica” di quei tempi.

Ma torniamo ad Anassila. La sua ascesa al potere, come abbiamo visto, era stata motivata dalla necessità di Reggio di riprendere la leadership sullo Stretto di Scilla (questo il suo nome in antico!) dopo le sconfitte patite da parte degli Zanklei. La sua forza, per quello che riusciamo a ricostruire, si doveva fondare su un’alleanza con gli strati più umili della popolazione, interessati alla ripresa ed all’intensificarsi dei commerci, prospettando una politica di “mare”, basata sulla flotta, piuttosto che “di terra”, volta a tutelare gli interessi agricoli dei possidenti nel territorio reggino, come doveva essere quella seguita dai governi oligarchici. Il primo passo per riprendere il controllo dello Stretto il tiranno non lo progettò a tavolino, ma, forte di una lucida visione politica e strategica, lo realizzò sfruttando un’occasione propizia che gli si era presentata.

Agli inizi del V sec. a.C. la Sicilia si trovò a vivere anni duri, soprattutto a causa di una serie di tiranni che avevano iniziato una guerra per l’egemonia sull’isola. Il più forte tra questi tiranni si era dimostrato Hippokrates di Gela, che aveva scelto come suo hipparchos (“comandante della cavalleria”, il secondo in comando) un personaggio destinato a diventare molto più famoso di lui, Gelon, della stirpe dei Dinomenidi. Il piano di Ippocrate era sostanzialmente riuscito, sia pure dopo aspri combattimenti. A Zankle egli era riuscito ad imporre un tiranno/fantoccio nella figura di Skytes, uomo che aveva rapporti anche con il Gran Re di Persia. I combattimenti che Rhegion aveva dovuto sostenere, riuscendo sconfitta, dovevano essere legati alla secolare politica di resistenza della polis italiota contro tutti i tentativi di dinasti sicelioti (“greci di Sicilia”) di conquistare lo Stretto.

L’occasione per tentare di ribaltare la situazione fu offerta ad Anassila dal passaggio di una flotta di esuli dell’isola greca di Samo per il porto di Lokroi. Questi Samii erano un nutrito gruppo di fuoriusciti, che non si erano voluto piegare  al dominio del Gran Re di Persia, che aveva conquistato la loro patria. L’occasione per andare via da Samo era stata offerta loro dal tiranno di Zankle Scite, che li aveva invitati a colonizzare il sito di Kalè Aktè (“buon approdo”) sulla costa tirrenica vicino Milazzo, certo su consiglio ed approvazione di Ippocrate di Gela. Anassila, che si trovava a Lokroi, li convinse, secondo le fonti, a recedere dalla fondazione di Calatte ed a prendere con forza la stessa Zankle, in quel momento priva del suo esercito, partito con il tiranno al seguito del vero padrone Ippocrate.

Il consiglio fu immediatamente accettato e messo in pratica, così che nel 494 a.C. Zankle fu occupata, praticamente senza colpo ferire, dagli esuli samii, che quasi rifondarono la polis come una nuova Samo. Come si può facilmente comprendere, però, il colpo di mano non poteva rimanere senza conseguenze: Ippocrate e Scite si precipitarono immediatamente su Zankle, assediandola.

I Samii, gente pratica, si piegarono immediatamente ad un accordo stipulato su queste basi: a loro sarebbe toccata l’asty (“la città entro le mura”) e metà dei beni mobili in essa contenuti, mentre ai Zanklei sarebbe rimasta la chora (“il territorio”) e l’altra metà dei beni mobili. In base al patto, infine, i Samii sarebbero entrati nel novero dei sudditi semiautonomi del tiranno Ippocrate. Ci sono rimaste le coniazioni dei Samii a Zankle, con al diritto uno scalpo di leone (in ricordo di Eracle) ed al rovescio una prua di trireme da guerra; la loro particolarità consiste nel fatto che sono datate anno per anno, come per l’inizio di una nuova era (“l’era samia”), con lettere/numeri che vanno da alfa ad epsilon, 5 anni.

Se l’accordo poteva risultare vantaggioso per i Samii e per Ippocrate, certo non lo era per Anassila ed i Reggini, dopo cinque anni di occupazione, nel 489 a.C., anno epsilon della loro era, i Samii si trovarono a dovere affrontare un attacco combinato per terra e per mare dei Reggini, che gli antichi consideravano un vero capolavoro di strategia militare, anticipatore dei futuri assedi. La vittoria arrise ad Anassila, che conquistò Zankle, progettando, in un primo momento, di distruggerla completamente e per sempre, ma poi si persuase sull’utilità di utilizzare la polis come spina nel fianco per Ippocrate ed i suoi alleati, nel contempo mantenendo più saldamente il controllo dello Stretto.

Il tiranno, quindi, operò una nuova fondazione della polis, divenendone l’ecista. Il nome della nuova città fu cambiato in Messene, in ricordo della patria d’origine della famiglia del tiranno e anche perché Anassila dovette approfittare dell’occasione per collocarvi un nutrito gruppo di esuli dalla Messenia, tormentata dagli Spartani, che si erano recati a Reggio per chiedere aiuto e protezione. In questo momento, per chiarire l’unità tra le due città dominate dagli anassilaidi, Messene cominciò a coniare moneta d’argento con i tipi che Anassila aveva imposto a Reggio con la sua presa del potere: al diritto una testa di leone frontale (simbolo del sole e di Apollo) e al rovescio una testa di vitello (in ricordo di Eracle che aveva dato nome all’Italia “terra del vitello”); solo la legenda monetale distingueva la coniazione delle due città. RECINON (“dei Reggini”) e MESSENION(“dei Messeni”).

Lo stesso tiranno, avendo lasciato il figlio Kleophron o Leophron a Rhegion, spostò la sua residenza a Messene per dirigere le operazioni militari contro la chora di Zankle, che, come abbiamo visto, era rimasta nelle mani degli Zanklei fedeli a Ippocrate. Se tacciono le fonti letterarie, sono quelle archeologiche che informano su questi eventi: ad Olimpia sono stati ritrovati degli elmi e delle armi che portano dediche dei Reggini e dei Messeni in ringraziamento a Zeus per le loro vittorie contro Gela (l’esercito di Ippocrate) e Mylai (Milazzo, cioè gli Zanklei della campagna). Il “Regno  dello Stretto”, come noi moderni chiamiamo lo Stato messo in piedi da Anassila, rimase nelle mani degli Anassilaidi fino al 461 a.C.

Forse è di questi anni, o, più probabilmente in un’epoca leggermente successiva, la spedizione di Anassila contro i Locresi, al fine di portare il confine ionico di Rhegion dall’Halex al Kaikinos, prendendo il controllo del Capo Eracleo e dei suoi porti strategici. Secondo le fonti, alla notizia della marcia dell’esercito reggino, i locresi furono presi dal panico, al punto da consacrare le figlie delle più nobili famiglie della città alla prostituzione sacra nel tempio della divinità poliade (“ la principale della città”), Persefone, celebrata nei celebri pinakes conservati al Museo della Magna Grecia di Reggio.

Oltre all’aiuto divino, i Locresi si rivolsero a Gelone, che nel frattempo aveva preso la tirannide di Gela dopo la morte di Ippocrate, e che aveva spostato la sua residenza a Siracusa, facendone la “capitale” della Sicilia orientale. L’intervento diplomatico di Gelone servì a dissuadere Anassila dal riservare a Lokroi la fine di Zankle, ma il controllo del promontorio strategico rimase saldamente ai Reggini.

Nell’olimpiade del 484 o, più probabilmente quella del 480 a.C., Anassila aveva sfidato lo strapotere di Gelone e dei Dinomenidi su un terreno in cui avevano dimostrato la loro eccellenza: la corsa sui carri. La letteratura greca è ricca di epinici (“poemi per la vittoria”) composti dai massimi poeti del tempo per celebrare le vittorie dei tiranni siracusani nella gara più prestigiosa negli agoni olimpici: la corsa con le quadrighe di cavalli. Era questa una corsa dalle forti valenze politiche: le prime gare sono narrate nell’Iliade, mentre fu Pelope (presente sulle monete di Himera perché antenato del tiranno Terone) ad istituire gli agoni panellenici ad Olimpia, ma il significato recondito e propagandistico della corsa stava nell’assimilazione della quadriga al carro solare di Apollo.

Come ci dice il filosofo Eraclito, la corsa al galoppo del carro attorno alle mete (che rappresentavano gli equinozi nella corsa del sole) rappresentava, quindi, la corsa cosmica del Sole, ed il vincitore era equiparato quasi allo stesso Apollo, divinità “politica” per eccellenza, giacché aveva strappato il mondo dal caos, riordinandolo armoniosamente.

Anassila, secondo la nostra ricostruzione, sapeva di non potere competere con i Dinomenidi nella corsa delle quadrighe, ma iscrisse un suo carro in una gara altrettanto antica, anche se non così prestigiosa a livello panellenico, quale era quella delle bighe di mule. L’agone doveva essere stato tradizionale, giacché il carro che si utilizzava, l’apene, era un veicolo che veniva impiegato nei momenti importanti e decisivi nella vita di un uomo: era il carro che lo portava a casa insieme alla sua sposa dopo il matrimonio; era quello che lo conduceva al riposo eterno dopo la morte (significativamente, anche la nostra epoca ha mantenuto una automobile “speciale” per il giorno del matrimonio e del funerale). Rispetto alla quadriga, l’apone si presentava più legato al pitagorismo, perché le mule, in confronto ai cavalli, più ombrosi, hanno un’andatura molto più ordinata e regolare (per secoli si sono preferiti i muli ai cavalli nelle parate militari), che meglio si addice al carro solare di Apollo cosmico (“ordinatore”).

Nella gara delle bighe di mule il carro reggino trionfò, ed Anassila volle sfruttare a pieno tutto il potenziale propagandistico di una vittoria ad Olimpia. Le fonti ateniesi successive, forse influenzate dalla malignità di quelle siracusane, mostrano di non comprendere la gioia, giudicata eccessiva ed immotivata, quasi da parvenu (a Reggio diremmo rinesciutu)  del tiranno reggino, che offrì ai Greci riuniti per le Olimpiadi il più fastoso banchetto che la storia ricordi e dovette comprare cara l’opera del poeta Simonide di Ceo, il più importante e famoso del tempo, che non voleva saperne di comporre un epinicio in onore di animali che lui, con gli occhi di un greco di Asia che non comprendeva le tradizioni magnogreche, giudicava spregevoli e non degni dell’onore della Poesia. Simonide, come ci narrano le fonti, finì col cedere ad Anassila, in cambio di tante belle monete argentee sonanti della zecca di Rhegion, ma non volle assolutamente nominare le mule, iniziando così la sua composizione poetica: “Salve, figlie delle cavalle dai piedi veloci”.

Ma nere nuvole si addensavano sulla Sicilia, nuvole di guerra. I tiranni più importanti dell’isola, Terone di Agrigento e Gelone di Siracusa, dorici di stirpe, avevano stretto un patto di alleanza contro le poleis calcidesi isolane, che portò, come prima conseguenza, alla rimozione di Terillo, tiranno di Himera, alleato ed imparentato con Anassila. La provocazione era troppo grave per lasciarla cadere. Tutti i Sicelioti videro con chiarezza che i due tiranni dorici avevano in mente di conquistare l’intera isola, realizzando il sogno che era stato di Ippocrate. Le reazioni non si fecero attendere: Cartagine cominciò subito a preparare un esercito grandioso, che com’era solita fare, era composto quasi interamente da mercenari; anche Reggio dovette fare la sua parte, per tentare di arginare i suoi nemici storici, inviando denaro per le paghe dei mercenari e promettendo un suo intervento armato.

Il confronto militare si venne a realizzare nell’anno 480 a.C., proprio nello stesso periodo in cui i Persiani davano il secondo assalto alle poleis di Grecia. La tradizione vuole che la battaglia navale di Salamina, con cui gli Ateniesi e gli alleati greci distrussero la flotta persiana, sia avvenuta lo stesso giorno della battaglia campale di Himera. La propaganda successiva, di parte ateniese e siracusana, sarà bravissima nel dipingere le due guerre parallele come lo scontro definitivo tra grecità e barbarie. In verità, pero, almeno nel caso siciliano, Cartagine stava tutelando, oltre che gli interessi propri, anche la tradizionale collaborazione con gli Ioni di Sicilia e Magna Grecia.

La battaglia decisiva, come abbiamo detto, si svolse a Himera, patria del grande poeta Stesicoro, (nato però forse a Metauro/Gioia Tauro) e fu un trionfo siracusano. I promessi rinforzi reggini, se furono realmente inviati, non fecero in tempo ad arrivare, permettendo ad Anassila di non doversi sedere al tavolo dei vinti. In questo modo la sconfitta non divenne disastrosa per Anassila ed i suoi, anzi, dopo Himera, il tiranno prese in moglie la figlia di Geleone di Siracusa, rafforzando la nuova alleanza.

Dopo Himera vanno datate le monete d’argento reggine con nuovi tipi e nuovo peso, che mostrano la nuova pertinenza all’area siracusana. Al dritto i tetradrammi presentano la biga di mule guidata da un auriga barbuto accoccolato, mentre al rovescio c’è una lepre in corsa. Tali monete, come quelle precedenti, furono battute identiche da Rhegion e da Messene, tranne che per la legenda. Esse furono molto apprezzate dai contemporanei e furono conosciute con il soprannome di lagones (“lepri”). La preminenza siracusana si riscontra nella scelta di un tipo simile a quello della quadriga di Siracusa e nella scelta dello standard ponderale che la polis siciliota aveva imposto a tutta l’isola.

Il vecchio tiranno, qualche anno dopo Himera, si avviava alla morte. Non sappiamo che fine abbia fatto (C)Leofrone, ma, quando Anassila morì, i suoi figli ancora in vita erano minorenni, e probabilmente erano anche nipoti del Dinomenide Hiaron, che governava Siracusa dopo la morte di Gelone. Per tutelare gli Anassilaidi divenne reggente di Rhegion e Messana un amico di Anassila, di nome Mikythos, che proveniva dalla Grecia continentale. In questi anni il nome della polis siceliota, per influsso dorico, passò da Messene in Messana, il che ci mostra come i tanti dialetti greci locali si stessero uniformando in una lingua siceliota con molti elementi dorici, più o meno omogenea, parlata anche a Reggio.

L’epoca degli Anassilaidi fu un periodo di grande fioritura artistica per Reggio. Fu proprio in questo momento che fiorì lo scultore Klearchos di Rhegion, allievo di due artisti  della Grecia continentale. La sua arte fu celebrata per tutto il mondo greco, tanto che egli fuse in bronzo la statua di Atena Chalkioikos a Sparta, la divinità più importante del pantheon lacedemone. Ai suoi tempi, Clearco non era in grado di fondere statue a grandezza umana, ma si limitava a mettere insiemi dei pezzi fusi a parte, rifinendo l’opera con l’uso sapiente dei martelli. Il grande bronzista riversò la sua arte nel suo allievo prediletto Pythagoras, destinato a divenire l’artista più famoso e celebrato prima dell’ateniese Fidia. Pitagora di Reggio impresse uno sviluppo decisivo nella bronzistica antica.

Le fonti ci attestano una perizia ed un’acribia assolutamente straordinarie: egli faceva “respirare” le statue (gli antichi credevano che la respirazione avvenisse tramite le vene, quindi significa che Pitagora sapeva rendere bene l’anatomia umana ed i vasi sanguigni); era maestro insuperabile nel rendere le ciocche di capelli e quelle della barba; con il “ritmo” impresso alle sue opere aveva realizzato il primo ”canone” della scultura. Il grande Pitagora, che alcuni studiosi moderni tendono  a confondere con un omonimo scultore di Samo, lavorò in tutta la Grecia, arrivando a compiere autentici capolavori, quali molte statue di atleti vincitori; ritratti di poeti, come l’Anacreonte ubriaco; temi mitologici, come il Perseo; ed il gruppo più celebre di tutti, quello che raffigurava Eteocle e Polinice divisi dalla madre Giocasta. Tra le ipotesi di attribuzione dei Bronzi di Riace, qualche studioso pensa con noi che le due statue siano proprio l’originale dell’Eteocle e Polinice di Pitagora di Reggio.

La dinastia di scultori non finì con Pitagora, ma continuò con suo nipote Sostratos, cui noi attribuiamo una collaborazione con lo zio nel bronzo “B” (il “vecchio”).

Lo stessoMicito, il reggente, commissionò opere di bronzistica, come la statua del dio Asclepio seduto in trono (che è possibile vedere in alcune monete reggine) che egli dedicò ad Olimpia. Il culto di Asclepio, figlio di Apollo e dio della medicina, testimonia l’eccellenza dell’arte medica sulle due rive dello Stretto, con la presenza di famose acque termali vicino Reggio, ormai non più identificabili.

La reggenza di Micito fu funestata da calamità, che ne determinarono la fine politica. In primo luogo, il reggente inviò un consistente contingente di tremila opliti (“fanti pesanti”) reggini, nerbo dell’esercito della polis, per aiutare l’alleata Taranto, in guerra contro i popoli italici a lei vicini. Non sappiamo bene quali fossero gli interessi reggini da tutelare in Puglia, ma certo è che l’intera forza reggina cadde in un’imboscata a Manduria, finendo annientata dai Messapi. Lo storico Erodoto parlò, con commozione, della “più grande strage di Greci” fino ai suoi tempi.

Il secondo fallimento, di cui ci sfuggono i contorni, ebbe come oggetto la fondazione di una colonia reggina a Pissunte, nella Campania meridionale, dove da almeno due generazioni si erano manifestati pressanti interessi della polis. Strabone ci attesta come tale fondazione ebbe una breve  e sfortunata vita, e che quasi tutti i coloni reggini dovettero rientrare in patria.

I due rovesci dovettero intaccare l’affidabilità del governante, anche perché i figli di Anassila si rivolsero direttamente allo zio Ierone, pregandolo di farli andare al potere. Micito, compresa l’ineluttabilità della fine del suo mandato, si mise spontaneamente da parte e tornò in patria, nel Poloponneso, lasciando agli Anassilaidi il governo di Rhegion e Messana.

Nel 468 a.C. il vento di libertà tornò a soffiare prepotente in Sicilia e Magna Grecia: a Siracusa la dinastia dei Dinomenide venne abbattuta. Per celebrare la ritrovata libertà, l’assemblea popolare stabilì di erigere una statua a Zeus Liberatore (il dio che, abbattendo con un fulmine l’ultimo dei Giganti, liberava il mondo dalla loro odiosa tirannia) e di celebrare in suo onore un culto annuale, con sacrifici e agoni. Nel 461 a.C. toccava anche agli eredi di Anassila, che furono cacciati dalla polis senza potere mai più tornare: Reggio e Messana erano libere! Di questo avvenimento restano forse due tracce archeologiche importanti nel Museo di Reggio: la “testa di Basilea”, che è, a nostro avviso, la copia reggina dello Zeus Liberatore di Siracusa, e il kouros di Reggio. La statua, praticamente integra e rimasta all’aperto per pochi anni, presenta evidenti tracce di abbandono violento. Probabilmente si trattava della statua di un giovane anassilaide, che fu rovesciata all’indomani della caduta dei tiranni.

Tratto da “La storia di Reggio a fumetti” commissionato dall’Amministrazione Comunale di Reggio Calabria. Testo del professore Daniele Castrizio

 

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