STORIA DI REGGIO: GLI ANGIOINI

Dopo la conquista normanna, abbiamo visto rapidamente deteriorarsi la situazione economica e sociale delle libere città romee, rese schiave dall’instaurarsi del feudalismo, grazie al quale i cittadini, da un giorno all’altro, si trasformarono in servi della gleba, semplici coloni (in greco “paroikoi”, poi in grecanico “paddechi”) nelle stesse terre che erano state loro proprietà.

Il feudalismo franco, che importò nel meridione romano le forme mentali che hanno dato origine alle mafie (divisione del territorio in mano ai clan familiari, riscossione di tasse locali assolutamente autogestite da chi detiene il potere locale, autonomia di ogni clan rispetto ad un governo centrale, litigiosità tra clan confinanti, gerarchia all’interno del clan fondata su rapporti di subordinazione), divenne una vera e propria palla al piede delle città romee, impedendo non solo lo sviluppo di una borghesia imprenditoriale, ma anche ponendosi come un vero e proprio anti-stato, refrattario a qualsiasi tipo di governo centralizzato. Per semplicità, si può considerare il sistema feudale dei conquistatori come un apparato di sfruttamento spietato del territorio sottomesso, destinato, alla lunga, ad impoverirlo ed a renderlo culturalmente arretrato. Se, fino all’arrivo dei Normanni, dobbiamo registrare una Reggio colta, in grado di fornire un grado di istruzione ad una base abbastanza vasta, la perdita della libertà portò con sé l’ignoranza degli autoctoni e l’attacco micidiale alla loro cultura e tradizione.

In quest’ottica va inquadrata la resistenza che, ancora sotto il re svevo Manfredi, vede unite Reggio e Messina nella lotta contro Pietro Ruffo, conte di Catanzaro. I domini dei Ruffo, come quelli di altri importanti feudatari nel regno siciliano, erano divenuti presto dei veri e propri stati praticamente indipendenti, con i quali lo stesso potere regio doveva fare i conti. Reggio si trovava praticamente circondata da feudi in mano al Conte Ruffo, contro cui dovette combattere per secoli. Sotto Manfredi, la lotta assunse carattere di una vera e propria guerra, con una alleanza di Reggini e Messinesi, strozzati economicamente e periodicamente razziati dagli uomini dei Ruffo. Le armate dei Reggini (ricordiamo sempre che si trattava in gran parte della popolazione immigrata al seguito dei conquistatori) e dei Messinesi entrarono nelle terre dei Ruffo, cingendo d’assedio la fortezza di Calanna, dove si era attestato il Ruffo, e conquistando Seminara.

La situazione, resasi incandescente, dovette essere risolta direttamente da Manfredi, che scese a Reggio nel 1258 per riportare la pace, ottenendo dai Reggini la rinuncia all’indipendenza che avevano rivendicato, visto l’impossibilità di costringere il Conte Ruffo al rispetto delle leggi sveve.

Ma per la monarchia sveva i giorni erano contati. Il papa di Roma avevano continuato, nei lunghi anni di regno di Federico II, a coltivare la pretesa di considerare il meridione d’Italia come suo possesso personale. La politica sveva, però, aveva portato ad una netta opposizione degli interessi del Regno di Sicilia rispetto allo stato pontificio, obbligando il papa Urbano IV ad inviare Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia, a ricevere la corona dell’isola.

Com’era già avvenuto ai tempi di Enrico IV, anche la calata di Carlo I, che aveva ricevuto a Roma, dalle mani del papa, la corona del Regno di Sicilia, fu, dal punto di vista militare, molto agevole. Nel 1266, nella battaglia di Benevento, i Francese sconfissero e uccisero Manfredi, battendo le sue truppe feudali sveve ed aprendosi la strada per la conquista. Subito dopo, Carlo I entrò a Napoli su una quadriga guidata da quattro cavalli bianchi.

La conquista angioina rappresentò un ulteriore peggioramento delle condizioni dei greco-calabri, giacché lo stesso Carlo I decise immediatamente di spostare il baricentro del regno verso nord, per controllare meglio il papa di Roma. Calabria e Sicilia, del resto, erano troppo legate al loro passato, con una  storia difficile da controllare, e, come avevano fatto i Saraceni con Palermo ed i Normanni con Messina, il nuovo potere sentiva la necessita di identificarsi con una città da eleggere e plasmare quale nuova capitale del regno. La scelta di Carlo I cadde su Napoli, dove si trasferì la corte e dove, nel 1278, vennero spostate le maestranze delle zecche di epoca sveva: Brindisi, e Messina. Contemporaneamente, il re diede mano ad una riforma tesa a trasformare le maestranze del regno di Sicilia nella copia di quella francese, anche a dispetto di tradizioni antiche, e, soprattutto, di una fiorente economia abituata ad un determinato tipo di moneta.

Reggio dimostrò fin da subito di non gradire l’arrivo dei Francesi. Durante l’effimera campagna militare di Corradino di Svevia del 1268, la città appoggiò il legittimo sovrano svevo, e fu solo per l’arrivo di Carlo I e del suo esercito, che Reggio dovette riconoscerne l’autorità, pur contro voglia, e solo dopo aver subito un regolare assedio.

Essendo ancora una delle città più floride del regno, Reggio dovette anche subire l’arrivo di un funzionario reale, che controllasse l’afflusso delle merci tassabili nel porto cittadino e nella rada di La Catona (in greco “Katouna”, luogo di soste e di cambio di cavalli nelle strade pubbliche), divenuta il posto di traghettamento verso la Sicilia. Anche i mercanti reggini dovettero tollerare di essere schedati e periodicamente controllati.

Non è quindi un caso che, qualche anno dopo la riforma monetaria, certamente anti-siciliana ed anti-reggina, nel 1282 scoppiò quella che conosciamo come Guerra del Vespro, e che traeva origine da una insofferenza di fronte all’arroganza dei nuovi conquistatori, ancora meno rispettosi dei predecessori nei confronti della cultura locale. Nella vulgata storica scolastica la Guerra del Vespro viene presentata come una questione siciliana, ma due importanti fattori vengono solitamente trascurati. In primo luogo, non viene messo in risalto il ruolo avuto da Reggio, che, immediatamente dopo lo scoppio della rivolta, aprì le porte agli Aragonesi di re Pietro, che aveva sposato Costanza, figlia di Manfredi, chiamati in soccorso dai Siciliani. Secondariamente, poi, si tralascia il contributo importante dato dall’Imperatore Romeo Michele VIII Paleologo, occulto finanziatore dell’impresa aragonese: l’Impero non si arrese mai all’evidenza della perdita dell’Italia meridionale, inviando spedizioni militari (peraltro mai studiate dagli storici) e assistendo in tutti i modi il popolo ortodosso di Calabria e Sicilia.

La scelta di Reggio di stare dalla parte degli Aragonesi era, di fatto, obbligata: l’intera Calabria meridionale gravitava economicamente sulla Sicilia Orientale, e, per secoli, le monete circolanti a Reggio erano state quelle siciliane.

Scoppiata la guerra, Reggio passò varie volte dalle mani angioine a quelle aragonesi. Essendo un punto strategico di vitale importanza, la città dovette pagare amaramente le conseguenze di una guerra combattuta da potenze straniere sul proprio suolo. In particolare, il ruolo di Reggio era vitale per le operazioni militari contro Messina. La flotta angioina fu ospitata nella rada di La Catona, dove gli angioini realizzarono un palazzo statale per usi militari. Nello stesso 1282, il re Carlo I, dopo mesi passati inutilmente nell’assedio messinese, si ritirò a svernare a Reggio, e sempre nelle acque antistanti la città, la flotta francese fu sonoramente sconfitta da quella aragonese. Il generale Giacomo d’Aragona osò assalire la fortezza di Reggio per catturare Carlo, ma ne fu respinto con gravi perdite. L’anno successivo, lasciate la maggior parte delle truppe tra Reggio e La Catona, Carlo I abbandonava la città, affidandola al figlio Carlo.

Un’ulteriore piaga si era aggiunta: gli Almugaveri. Si trattava di soldati poveramente armati, reclutati tra i più poveri e disperati aragonesi, scatenati in Calabria contro le armate angioine. Famosi per la loro crudeltà e per la rapacità nelle razzie, gli Almugaveri fecero letteralmente terra bruciata nella Calabria meridionale, attaccando tutte le postazioni angioine. Rimane famigerato il loro assalto a La Catona, che provocò vittime e distruzioni. I Calabro-greci, impotenti osservatori delle guerre tra conquistatori, continuavano a pagare il prezzo più alto, ormai semplici testimoni incapaci di forgiare il loro stesso destino.

Appena Carlo I si fu allontanato, il partito aragonese di Reggio aprì subito le porte a Pietro d’Aragona, ma, con la pace di Caltabellotta del 1302, la miopia dei politici impose la restituzione della città agli Angioini: i Reggini, non ancora domi, si diedero nuovamente agli Aragonesi. Il ruolo giocato dal papa, ormai sempre più controllato dai Francesi, in questa vicenda divenne palese, quando i Legati Pontifici, che avevano ricevuto la città dagli Aragonesi, in seguito ad un altro trattato, consegnarono le chiavi della città a Roberto d’Angiò. Un’altra volta la città fu sacrificata sull’altare della pace. Ancora una volta Reggio si ribellò ad una decisione che la condannava alla miseria, ribellandosi inutilmente agli Angioini.

Ma i guai per lo Stretto non erano ancora finiti. La lotta tra Angioini ed Aragonesi si protrasse, a fase alterne, fino al XVI secolo, divenendo una delle prime cause dell’attuale miseria. Fu in occasione di questi scontri che una flotta aragonese rispose con ritorsioni all’assedio angioino di Palermo, dando l’assalto a vari centri della Ionica reggina, tra cui Bova. Di questi combattimenti resta traccia nel tesoretto di Paracopio di Bova, occultato in occasione delle razzie aragonesi.

Questo attacco aragonese convinse il governo angioino della debolezza delle fortificazioni di Reggio e della sua provincia. Furono, così, iniziati dei lavori di rafforzamento delle mura di Reggio e di ammodernamento delle sue artiglierie. A quel tempo, un’importante impostazione doveva trovarsi nella torre del Trabocco (una catapulta) del forte di Lemos, che proteggeva il porto di Reggio, ed un’altra catapulta doveva essere alloggiata sulla collina del Trabocchetto. Nel castello svevo, com’è stato recentemente scoperto, nell’impossibilità di posizionare le nuove artiglierie sulle mura del ‘200, fu costruita una torre circolare dalla parte sud, quella più esposta agli attacchi del nemico, poi inglobata nella muratura che unisce le due torri aragonesi. È di questo periodo anche la costruzione di torri di difesa in tutti i porti ed approdi calabresi. Il loro scopo non era essenzialmente quello di segnalare l’arrivo di naviglio nemico, ma di impedire lo sbarco di bande di razziatori, proteggendo ogni possibile posto di sbarco.

Il confine tra Regno di Sicilia aragonese e quello della Sicilia continentale angioino posto nello Stretto si rivelò un disastro per Reggio, che per millenni era stata parte dell’area economica della Sicilia orientale, da cui, come abbiamo visto, traeva il proprio circolante. La nuova zecca di Napoli non era in grado di fare affluire in Calabria meridionale la moneta divisionale necessaria al mantenimento dei piccoli scambi commerciali, anche se era in grado di provvedere all’argento di buon peso necessario per il pagamento dei soldati e per le spese della nobiltà. Si ritrovano i Saluti di Carlo I e i Gigliati di Roberto entrambi d’argento, i rinvenimenti monetali testimoniano l’assoluta mancanza di denari di misura napoletani. Per ovviare alla mancanza di divisionale, nella Calabria si ebbe, fino al primo quarto del XIV secolo, una straordinaria circolazione di tornesi della Grecia angioina, probabilmente arrivati da noi in seguito agli stretti scambi commerciali e per la mobilità delle truppe francesi, mandate a presidiare le fortezze greche.

Dopo il ritiro dalla circolazione di queste monete, a causa di Roberto d’Angiò, dovette verificarsi una vera e propria fame di spiccioli, cui i Reggini sopperirono facendo rientrare in circolazione piccole monete romane, bizantine, normanne e sveve, che venivano regolarmente ritrovate nel terreno. La presenza di esemplari così antichi non deve sorprendere, essendo comune quando una società economicamente avanzata non ha il quantitativo necessario di moneta divisionale.

Anche per altri aspetti il governo angioino si rivelò pernicioso per gli italo-greci. Se con gli Svevi il Codice delle Costituzioni della monarchia era stato scritto in greco, Roberto ordinò di cambiare la lingua degli atti ufficiali dal greco al latino, distruggendo la residua parte dei Reggini autoctoni colti. Uno degli ultimi dotti reggini conosciuti è certamente il medico Nicolò da Reggio, cui Carlo I ordinò di tradurre in latino le opere maggiori di medicina greca.

L’amministrazione della città fu mutata, abbandonando il modello romeo. A capo dei comuni, detti Università, era un sindaco. Accanto a lui compaiono quattro Mastri Giurati, eletti dall’Università, un Giudice (anche con mansioni amministrative), un Capitaneo (ufficiale del re) ed il castellano (comandante della guarnigione del castello).

Durante i re francesi fece il suo ingresso nel regno la Santa Inquisizione, cominciando la repressione contro gli ortodossi calabresi e la sistematica distruzione di luoghi di culto. Di quegli anni è l’inizio della “guerra dei santi”, in cui le gerarchie religiose dei conquistatori tentarono di estirpare il culto dei santi locali, sostituendoli con quelli di santi di etnia franca. È di questo periodo la promozione di culto di San Francesco di Assisi, di San Rocco (un franco), di Sant’Antonio di Padova(in realtà portoghese), cui fa da contraltare la distruzione di icone, di reliquie e di intere cattedrali antichissime. Com’è normale per la Realpolitik, il potere straniero cercava di tutelarsi dalle ribellioni delle popolazioni autoctone imponendo i propri culti e tentando di sterminarle dal punto di vista culturale.

Cominciava, così, un rapido declino di Reggio e della Calabria.

 

 

Tratto da “La storia di Reggio a fumetti” commissionato dall’Amministrazione Comunale di Reggio Calabria. Testo del professore Daniele Castrizio

 

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