Nov 17 2015
LO SBARCO ANGLO-AMERICANO A REGGIO DEL 1943 (3 SETTEMBRE)
Qualche giorno prima dello sbarco, un soldato americano chiede di parlare col generale Eisenhower. Questi indicò Catona come punto di sbarco, perché il suo luogo di nascita. Io ho conosciuto quel soldato italo-americano, emigrato negli anni Trenta come clandestino a New York, dove viveva facendo l’aiuto macellaio, specializzato in capretti. Lui mi ha raccontato in italo-inglese come li definiva ancora crapetti. Una volta che gli Stati Uniti nel 1941 entrarono in guerra, furono disposti a concedere la cittadinanza statunitense anche ai clandestini. Ecco come questo giovanotto dall’America era giunto in Sicilia, prima dello sbarco in Calabria. Questo episodio non vuole dimostrare che il generale Eisenhower avesse dato ascolto all’ultimo dei suoi soldati, ma conferma come Catona fosse un luogo quasi obbligato per i rapporti nautici tra le due sponde dello Stretto.
Qui racconterò quanto ricordo del 1943, di quando avevo undici anni ed ero sfollato vicino Cannavò, il villaggio del signor Carlo Marrara, precisamente a Riparo Vecchio, presso miei parenti. Sfollato perché l’ordine del governo era quello di sfollare le città sottoposte a bombardamenti. Noi sfollati venivamo chiamati i spogghiati perché bisognosi di tutto. Qui nacque il termine ‘ntrallazzu, di origine siciliane ed indicante la vendita al mercato nero dei beni di prima necessità, come pane, olio e carne. Io ricordo che dalla sera del 2 settembre all’alba del 3 ci fu un bombardamento di artiglierie eccezionale. Sparavano le fortificazioni dalla costa messinese, sparavano le navi da guerra coi grossi calibri degli incrociatori. Mancò il bombardamento aereo. Un fuoco continuo sino alle 4:30, come confermato da uno storico inglese, che in questo orario ha fissato lo sbarco anglo-americano a Reggio Calabria. All’alba cercai di vedere lo Stretto, ma non lo vidi, perché completamente ricoperto di navi. Un ricordo gradevole, perché passato il bombardamento, il pericolo cessò. Gli anglo-americani non spararono nessuna cannonata, tant’è che non mi risultano scontri, c’è solo una leggenda di una batteria tedesca, ma non credo sia vera. Lo sbarco durò diverse ore. Presso Cannavò l’Esercito Italiano era rimasto come sanità militare ed aveva organizzato una tenda di pronto soccorso. Siccome io avevo un problema di infezione ai piedi, perché camminavo scalzo, mi recai con un parente in questa tenda. Aspettando il mio turno arrivò un’ambulanza con una donna ferita, proveniente da Arangea, come mi dissero. La cosa era verosimile perché l’aeroporto era un punto di resistenza tattico strategica degli italo-tedeschi, quindi l’attacco anglo-americano in quel settore fu certamente molto duro.
Da questo momento, sbarcati gli Alleati, per me e per tutti gli altri, sfollati e non sfollati, cominciò la pace. Non ci furono più allarmi aerei, tessere annonarie, gli Americani erano arrivati con le banconote già pronte, le AM-Lire, e poi l’abbondanza straordinaria di roba da mangiare. Noi venivamo da quasi tre anni di fame nera. Ricordo che c’erano degli anfibi, autocarri scoperti che camminavano per mare e per terra, carichi di sacchi di zucchero e farina. Ricordo addirittura il tipo di pane che ne veniva prodotto, era un pane che noi abituati al pane della tessera, quasi nero, non avevamo mai provato. Arrivò il caffè, il tè e la cioccolata. Imparammo a distinguere la nazionalità dei soldati dalle loro divise. Tra inglesi e americani era quasi impossibile, ma coi canadesi sì e con gli australiani dai loro grandi cappelli pure. Ogni accampamento dava un regalo ai bambini, se volevano la cioccolata si andava dagli americani, il caffè dagli inglesi ed il tè dai canadesi. I tedeschi ci davano solo delle grandi ruote di pane nero, che arrivava già pronto dalla Germania, dimostrando una organizzazione eccezionale. Per nostra fortuna, l’8 settembre, quando si ruppe l’amicizia e la fraternità con la Germania, i tedeschi da noi non c’erano più.
Dell’occupazione anglo-americana di Reggio io ho questi ricordi semplici, ma efficaci. I soldati misero un solo manifesto, in lingua italiana, che intimava la consegna delle armi alla questura o agli accampamenti, pena la fucilazione. Quasi tutti erano cacciatori in Calabria e capirono che non si scherzava. Quindi consegnarono le armi, avendo in cambio una ricevuta, grazie alla quale, a fine occupazione, ebbero il ritorno dei fucili. Il 1° ottobre 1943 gli anglo-americani garantirono la puntuale riapertura delle scuole, anche grazie all’interesse del governatore militare reggino, un nobiluomo inglese. Il convitto nazionale fu requisito e divenne ospedale militare ed io frequentai la seconda e la terza media nella scuola “Spanò-Bolani”. Terminata l’occupazione tornai a fare il convittore. Gli anglo–americani cercavano con molta prudenza di evitare scene clamorose di atteggiamenti scorretti dei soldati in libera uscita. I soldati di colore, appena fuori dall’accampamento, si ubriacavano e diventavano pericolosi. C’erano delle pattuglie di polizia militare a sorvegliare attentamente queste situazioni. Reggio era comunque una città occupata, bisognava stare attenti alle richieste delle autorità militari, ma ci fu anche tanta fortuna. I palazzi più belli di Reggio vennero presi a dimora dagli ufficiali, che quando se ne andarono, lasciarono in questi loro alloggi ogni delizia, zucchero, caffè, persino i primi wustel. Fu una pacchia.
Gli anglo-americani furono inflessibili su un punto, con il podestà fascista di Reggio, Michele Barbaro, che era un invalido della prima guerra mondiale, dove era stato ufficiale degli alpini. Avvenuto lo sbarco, vestì la sua uniforme e si sedette alla scrivania di Palazzo San Giorgio. Lì entrarono i soldati americani e lo dichiararono prigioniero di guerra, per poi spedirlo in un campo di prigionia, allestito in una certosa a Padula. Questa correttezza ci fece capire come la lotta fosse tra democrazia e antidemocrazia. Noi italiani eravamo, devo ammetterlo, dalla parte sbagliata, perché anche altre nazioni di destra, come la Spagna ed il Portogallo, evitarono di schierarsi a fianco del nazismo.
Tratto da: “LA STORIA DEI REGGINI” di FRANCO MOSINO edito da FAMIGLIA VENTURA EDITORE