ORIGINE DEI NOMI DEI RIONI DI REGGIO CALABRIA: GEBBIONE

Il nome Gebbione discende dalla voce dialettale “ggebbia” (vasca murata per contenervi acqua di irrigazione o da abbeverata per animali domestici e da lavoro). La “ggebbia” era una cisterna in muratura costruita, ad uopo, sia sopra il livello del suolo, sia come struttura a scavo.

L’etimologia è dall’arabo è dall’arabo giabiyale = vasca d’acqua: tale arabismo è rimasto solo in Sicilia che fu a lungo arabizzata nell’alto Medioevo e poi penetrato in Calabria con i profughi Cristiani, riparati sul continente per sottrarsi alle persecuzioni dei Musulmani. Il vocabolo è attestato in Sicilia dall’anno 1233, in un testo latino di Girgenti (Agrigento). La lingua greca non riporta tale termine o almeno una radice approssimativa di esso. Per le numerose gebbie, delle quali era cosparso il comprensorio più a sud del territorio, il rione era considerato il polmone agricolo della città poiché, grazie alle acque delle gebbie si poteva provvedere alla irrigazione degli ortaggi e dei bergamotti durante il periodo di maggiore siccità, quando l’agricoltura, che costituiva pienamente il sostentamenti della popolazione, rischiava di essere seriamente compromessa.

Al fine di regolare i flussi idrici tra i diversi proprietari terrieri, si stabilivano degli orari circa la così detta “acqua da nopia” cioè acqua della inopia, della scarsità o mancanza d’acqua (dal latino inopia =povertà).

Per quanto riguarda la zona di Sbarre, attigua alla fiumara Sant’Agata (cioè a sud), il consorzio irriguo di tale torrente stabiliva che dal 29 giugno, festa dei S.S. Pietro e Paolo, agli assegnatari consorziati potessero disporre di tre ore di acqua per settimana, ad orario fisso. Ma se l’acqua era scarsa, i turni venivano spostati e ruotavano nelle 24 ore. Sicchè si abbeverava il terreno pure di notte, nei giardini o poderi del posto.

L’acqua della gebbia scorreva incanalata lungo i vichi e lungo la strada principale per poi entrare in modo razionale nei giardini stabiliti e defluire lentamente nei solchi delle cosiddette “lenze” che erano delle partizioni regolari del terreno agrario delineate da piccoli argini di terra. L’acqua andava da una lenza all’altra per mezzo delle canalette seguendo un abile gioco di aprire e chiudere il passaggio rompendo e ricomponendo con la zappa gli argini di terra ai confini delle lenze.

La riserva d’acqua del “gebbione” che ogni proprietario aveva interesse a fabbricare nel suo fondo, proveniva, in estate, dall’acqua di subalveo, cioè dall’acqua delle falde freatiche che scorrevano perenni sotto il greto asciutto della fiumara Sant’Agata. Tale acqua veniva derivata dalle sponde del torrente  o del greto del torrente mediante scavi o pozzi o macchine idrauliche.

Una delle macchine idrauliche era detta in dialetto “sena” (in italiano noria), pure questa voce araba senija. La “sena” era alimentata dall’acqua di un pozzo adiacente molto profondo e funzionava con un sistema di secchi rotanti (ascendenti pieni e discendenti vuoti); i secchi erano di forma rettangolare, uniti ad una catena chiusa in modo continuo. Essi scaricavano l’acqua nelle gebbia attraverso un canaletto costruito con assi di legno. La “sena” veniva azionata da animali da lavoro (cavalli, asini, buoi). Il meccanismo, volgarmente, si chiamava “i bagghioli da ‘sena”.

viale v

 

Tratto dal libro LA STORIA, LE STORIE GEBBIONE  – LUCE SU UN QUARTIERE DI REGGIO CALABRIA, di PAOLA MALLAMO edito nel settembre 2005 da LARUFFA EDITORE SRL