Set 4 2015
STORIE DI CALABRIA: L’ESECUZIONE DI GIOACCHINO MURAT
Nel quattrocentesco castello di Pizzo, il 13 ottobre 1815 venne fucilato dai soldati borbonici il re di Napoli Gioacchino Murat, cognato di Napoleone del quale aveva sposato la sorella Carolina.
Nato a Labastide-Fortunière, in Francia, quarant’anni prima, da ragazzo serviva i clienti nell’osteria del padre, ma poi, divenuto soldato della Guardia Nazionale di Luigi XVI, combatté nella Campagna d’Italia al fianco di Napoleone divenendo generale di Brigata nel 1797, governatore di Parigi nel 1803, maresciallo dell’Impero, grand’ammiraglio, grand’aquila della Legion d’Onore, granduca di Berg e di Clèves e infine re di Napoli nel 1808. Rifugiatosi nella sua terra natale dopo la sconfitta di Napoleone a Waterloo, non avendo ottenuto l’asilo richiesto agli inglesi, sperò di riprendersi il trono di Napoli. Sbarcato a Pizzo l’8 ottobre con non più di 30 uomini, venne subito catturato e condannato a morte.
Imprigionato nel castello costruito nella seconda metà del secolo XV da Ferdinando I d’Aragona, ebbe il coraggio di confortare il sergente borbonico che gli notificava la condanna.
“Ebbene, sergente, perché piangete?”
“Maestà, ho servito sotto di voi e adesso ho la sventura di essere stato scelto per comunicarvi la sentenza di morte.”
“Non siete mai stato alla guerra, sergente?”
“Sì, maesta!”
“Avrete visto morire molti soldati. Immaginate che io sia uno di quelli. Andate da chi vi manda e dite che Murat non ha mai avuto paura della morte.”
Dopo questo colloquio, entrò nella sua stanzetta il confessore, il canonico Masdea, che Murat aveva incontrato qualche anno prima offrendogli ben 2000 ducati per la sua parrocchia e 100 per i poveri.
Il re avrebbe voluto evitare di confessarsi, ma fu convinto dalla sensibilità del prete che, subito dopo averlo assolto, assistette alla sua fine.
Murat venne infatti portato in un piccolo cortile del castello davanti al plotone d’esecuzione al quale comandò di non mettergli la benda sugli occhi e di togliere la sedia sulla quale, di solito, si sedevano i condannati.
I soldati erano più emozionati di lui perché conoscevano la grandezza d’animo del loro ex sovrano il quale, essendosi accorto dei loro tentennamenti, li spronò a compiere il loro dovere con queste parole:
“Amici miei, il cortile è abbastanza stretto perché voi possiate mirar giusto. Mirate al cuore e rispettate il volto.” E dopo aver aperto con le due mani la camicia gridò di nuovo: “Attenzione. Sono io che comando: Caricate! Puntate! Fuoco!”
Partirono solamente due colpi che non lo sfiorarono neppure di un centimetro.
“Nessuna grazia, amici” –disse ai soldati “non prolungate la mia agonia. Ricominciamo. Fuoco!”
A questo punto i soldati spararono tutti insieme e Murat cadde a terra stringendo al petto i ritratti della moglie e degli amatissimi figli.
Due giorni dopo la sua salma venne sepolta nella chiesa di San Giorgio, a poca distanza dalla piazza principale di Pizzo, alla presenza di una folla in lacrime. Qualche anno più tardi, quando si pensò di riesumare il suo corpo per seppellirlo in modo più degno, i suoi resti erano scomparsi e di loro non si seppe più nulla.