STORIA DI REGGIO: LA RIUNIFICAZIONE DEL MERIDIONE: IL REGNO DELLE DUE SICILIE E IL SISTEMA MONETARIO

Prima di designare come proprio erede al trono di Napoli Renato, la regina Giovanna II aveva chiesto aiuto contro Luigi III, nel 1420, ad Alfonso d’Aragona. Alfonso fu poi allontanato quando la regina si riavvicinò a Luigi III e nuovamente reintegrato come erede nel 1433.

Nel 1435, alla morte della sovrana, Alfonso cercò di impadronirsi del Regno, ma la sua marcia fu bloccata dalla disastrosa sconfitta che subì a Ponza, dove la sua flotta fu quasi completamente distrutta: dopo poco, Renato entrava a Napoli. Alfonso, tuttavia, seppe sfruttare al meglio la situazione, e grazie anche all’alleanza con Filippo Maria Visconti, duca di Milano, riprese la sua lotta per impadronirsi del trono di Napoli. La vittoria, infine, gli arrise nel 1442, quando Napoli cadde dopo che Renato aveva abbandonato la città: avveniva così l’unione tra il Regno di Napoli e quello di Sicilia (di Trinacria), tanto che l’anno seguente il papa Eugenio IV riconobbe Alfonso re Utriusque Siciliae. Alfonso, soprannominato ‘il magnanimo’ già in vita, fu un patrono delle arti e della letteratura, precorrendo la figura del sovrano rinascimentale.

La sua monetazione è molto varia, poiché il sovrano non fece alcun tentativo di unificare il sistema monetario siciliano con quello del Regno di Napoli. Ma mentre la monetazione siciliana perpetua i due nominali tradizionali (pierreale e denaro), quella napoletana è ricca di novità. L’oro fu reintrodotto, con la coniazione degli alfonsini, larghe monete che mostrano da un lato il sovrano al galoppo e dall’altro le armi inquartate di Napoli e di Aragona. Le stesse armi inquartate figurano nei carlini d’argento, dove sostituiscono il giglio angioino; in argento venne coniata una nuova moneta, il reale, del valore di ¾ di carlino, che mostra, oltre alle armi consuete in tutta la monetazione napoletana di Alfonso, il ritratto del sovrano. Alfonso continuò a coniare denari di mistura molto bassa, con impronte simili a quelle del reale. Alla morte di Alfonso nel 1458, il Meridione continentale e la Sicilia si separarono nuovamente, poiché, mentre la Sicilia e gli altri domini della corona aragonese andavano al fratello di Alfonso e suo erede naturale Giovanni, e poi al figlio di quest’ultimo, Ferdinando il Cattolico, il Regno di Napoli andava a Ferrante, suo figlio illegittimo. Ferrante regnò per quasi tutta la seconda metà del XV secolo, e i suoi eredi regnarono per pochi anni prima che il Regno di Napoli si unisse nuovamente alla Sicilia, all’inizio del Cinquecento, essendo conquistato da Ferdinando il Cattolico. La monetazione di Ferdinando è estremamente complessa, sia perché continua la tendenza, già presente nel regno di Alfonso, di moltiplicare i nominali in ogni metallo, sia per le numerose riforme che subì nel corso di un così lungo regno. In una prima fase Ferrante coniò il ducato in oro; in argento, non soltanto il carlino ma anche il suo doppio, la sua metà ed il suo quarto; infine, il denaro di mistura. Tutte queste monete presentano al diritto il ritratto del sovrano (di profilo o in trono) ed al rovescio le armi inquartate di Napoli e di Aragona. L’unico nominale a riportare, al posto delle armi di Aragona, la croce di Calabria, è il mezzo carlino. Questo ha portato alcuni studiosi, primo dei quali Fusco, ad attribuire la moneta a Reggio Calabria. Tale attribuzione è stata contestata da Pannuti, che attribuisce la moneta a Napoli, seguito da Travaini.

Dopo pochi anni di regno, Ferrante aumentò il peso della moneta argentea, riportandola a quello del vecchio gigliato: da una libbra di metallo si dovevano così ricavare non più 88 monete ma soltanto 80. Tali monete recano, al diritto, la rappresentazione dell’incoronazione del sovrano avvenuta a Bari nel 1459, ed al rovescio una grande croce di Calabria ad occupare tutto il campo.

A causa della scena che occupa il diritto, tale moneta fu chiamata ‘coronato’. Una terza fase della monetazione di Ferrante si può individuare a partire dal 1472, quando venne abolito il denaro di mistura, sostituito col cavallo di puro rame, così chiamato in ragione dell’animale che occupa il rovescio. L’ultima fase della monetazione napoletana sotto Ferrante coincide con la sostituzione della croce di Calabria dei coronati con la raffigurazione dell’Arcangelo Michele che trafigge un drago, e con il nome del sovrano che, sui vari nominali, non appare più come Ferdinandus ma come Ferrandus. Le coniazioni dei successori di Ferrante seguono sostanzialmente il sistema messo in piedi dal sovrano, con emissioni di ducati, coronati e loro frazioni, e cavalli, con iconografie monetali spesso mutate.

La circolazione della Calabria meridionale nella seconda metà del XV secolo è ancora da studiare nei dettagli. Se, con la separazione di Reggio dalla Sicilia seguita alla morte di Alfonso, la città e il suo territorio avrebbero dovuto utilizzare moneta napoletana, questa non è attestata nei ritrovamenti dal territorio pubblicati. Anzi, analizzando i due ripostigli di Calamizzi, occultati negli anni Sessanta del XV secolo, sembra che Reggio abbia utilizzato moneta siciliana; nella stessa direzione vanno le informazioni ricavabili dai ritrovamenti di privati sul territorio. Malgrado il Meridione continentale e quello insulare fossero in mano a due diversi sovrani, questi appartenevano entrambi alla casa d’Aragona, per cui Reggio, città di frontiera tra i due regni, non ebbe difficoltà a restare nell’orbita della sua area di circolazione tradizionale, ancorata alla Sicilia orientale, perlomeno relativamente alla monetazione di minor valore. Nella seconda metà del secolo la maggior parte delle monete divisionali in circolazione nel Reggino erano quindi quelle coniate da Giovanni II e poi da Ferdinando il Cattolico per la Sicilia. Relativamente al primo, forse non si tratta dei reali d’oro o dei pierreali d’argento (e della loro metà e quinta parte), ma certamente dei denari in mistura.

Nel 1479 Ferdinando diventa re di Sicilia, succedendo a Giovanni, e nel 1503 conquista Napoli: i due Regni sono nuovamente uniti sotto un unico sovrano. Egli governò in maniera spregiudicata, con provvedimenti che non incontrarono il favore del popolo: fu introdotta nel Regno l’Inquisizione e le tasse furono aumentate pesantemente, spesso per finanziare operazioni, come la conquista di Granada, che nessun interesse avevano per i sudditi italiani. La monetazione di Ferdinando rimase distinta per i possessi continentali e per quelli insulari, ed in questi ultimi è resa complessa dalle numerose modifiche introdotte. A Napoli si coniarono ducati d’oro, carlini d’argento e sestini in rame, ma non conosciamo con precisione la circolazione reggina durante il regno di Ferdinando il Cattolico, per cui non sappiamo se tale monetazione sia stata in uso a Reggio e nella Calabria meridionale limitatamente ai nominali di maggior valore, come potremmo ipotizzare se confrontiamo la situazione con quanto emerso relativamente all’epoca di Ferrante, o in misura differente; né se dalla zecca di Messina provenissero soltanto i divisionali o anche le monete di maggior valore prodotte per la Sicilia. La monetazione prodotta per la circolazione siciliana consisteva, prima del 1490, solo di un raro denaro in mistura. Le emissioni successive si possono dividere in tre fasi. La prima di esse vide la coniazione del trionfo d’oro, prima moneta aurea siciliana ad essere allineata, per peso e purezza, al ducato veneziano, che raffigura Ferdinando in trono e un’aquila simile a quella dei pierreali; ed il suo doppio, col ritratto del sovrano di profilo; in argento venne coniata l’aquila o tarì, che manteneva le stesse caratteristiche del pierreale, e la sua metà: queste monete, in luogo della raffigurazione del re, presentano le armi di Castiglia/Leon inquartate con quelle di Aragona/Sicilia.

La seconda fase delle coniazioni siciliane, probabilmente iniziata contemporaneamente a quelle napoletane, vide l’introduzione del ritratto del sovrano su tutti i nominali e la coniazione di ‘doppie aquile’ in argento. L’ultima fase della monetazione siciliana, prodotta negli ultimi anni di vita di Ferdinando, vide la coniazione di esemplari in argento chiamati tradizionalmente tarì: l’unità ed il suo doppio, assieme alla metà ed al quarto, con l’utilizzo delle consuete tipologie: busto di profilo, aquila siciliana e stemma d’Aragona; venne inoltre coniato un picciolo (denaro) in rame o bassa mistura.

Tratto da “La zecca di Reggio attraverso i secoli” a cura del professore Daniele Castrizio