RACCONTI DI CALABRIA: SANTAZZU SCIRUNI U MALANDRINU I PARMI

Santo Scidone di Palmi, conosciuto col nome di Santazzu Sciruni detto anche Tempesta, fu il primo vero boss della ‘ndrangheta calabrese. Visse a cavallo del 1900  e le sue gesta, il suo coraggio, la sua dialettica sono ricordate anche da canzoni (una cantata da Otello Profazio). Santazzu piace perché è generoso; si racconta che durante il terremoto del 1908 fosse riuscito a salvare – scrive Leonida Repaci – “da solo una ventina di persone: sempre primo a salire sulle case sconquassate, svettate, rotte, smozzicate; primo a frugare nelle macerie sulla fievole guida di un lamento, di un richiamo di un’agonia”. Nel suo vivere quotidiano era considerato come un re non gli mancava nulla nemmeno le piccole cose perché ognuno si “onorava” di portagli a casa le primizie dei raccolti degli orti, dei giardini o della montagna o ancora il pesce fresco appena pescato. Niente gli veniva negato nelle botteghe o al mercato e nessuno chiedeva o riceveva denaro per questo.

Si racconta che nei periodi di reclusione, la mattina gli venivano aperte le porte delle carceri e una carrozza con cocchiere lo attendeva. Faceva il giro del paese per essere salutato e riverito, raccoglieva raccomandazioni e dava ordini. In serata rientrava in carcere per trascorrere la notte con gli amici carcerati. Anche i processi che lo vedevano imputato avevano spesso un andamento a suo favore riuscendo a indirizzare giudici e avvocati sulla sua innocenza.

Fu assassinato, con la fiocina, da un giovane pescatore, al quale voleva imporre il pizzo sulla vendita del pesce spada, scrive Leonida Repaci: “ Raggiunto il Tempesta (cioè Santazzo) che nuotava tranquillamente, e che egli riconobbe per la maglia rossa che gli fasciava il corpo  tozzo e muscoloso, lo colpì di coltello ripetutamente, pazzamente, al basso ventre, al fianco, alle cosce alle punte dei piedi … ‘Ntoni il marinaio, che ne studiava i movimenti, come si trattasse di un pesce spada o di un tonno, prese la mira con quel suo occhio pacato che aveva imparato a leggere negli orizzonti, puntò il nemico al cuore con la fiocina: tranquillo, grave ieratico, come ubbidendo a un dovere sacro, a un ordine della Divinità. Il tempesta cercò di scansare il colpo, buttandosi a testa indietro. La fiocina fu più ratta di lui, gli si conficcò nel costato, tinse il mare di sanguigno: era finita per Santazzo”.

La canzone recita: “u mari i Parmi ch’era virdi cupu, i tandu tuttu rrussu è diventatu”.

Fu questa la tragica fine del “grande malandrino” dei palmisani. La notizia si sparse in un battibaleno non solo nella Piana Gioiese ma in tutta la Calabria.

Ancora oggi, viene citato il detto popolare “chi brutta morti chi fici Sciruni, fici la fini di lu piscicani”.