Feb 11 2019
LA MIGRAZIONE ITALIANA VERSO L’AUSTRALIA NEGLI ANNI ’50
Dopo il secondo conflitto mondiale, con particolare intensità a partire dagli anni ’50, per innumerevoli profughi da tutti i Paesi europei, senza casa e senza mezzi di sostentamento, si apriva una nuova meta all’orizzonte. La via per un sogno, costellata da tanti ostacoli ma con la speranza di una vita migliore coinvolgeva anche i Reggini. Associazioni internazionali (come la I.R.O. – International Refugee Organisation) organizzavano flussi migratori verso l’Australia, il “nuovissimo” continente che offriva opportunità di lavoro e quindi la prospettiva di una nuova esistenza.
In quegli anni del boom migratorio, la compagnia di navigazione Lloyd Triestino impiegava tre navi gemelle l’Australia, l’Oceania e la Neptunia che facevano rotta, sempre a pieno carico, verso l’Australia. I porti italiani di partenza erano Genova, Napoli, Messina e, in via eccezionale, per l’interessammento dell’allora ministro della Marina Mercantile Gennaro Cassiani (cosentino di Spezzano Albanese) al fine di raccogliere qualche consenso in più alle successive elezioni politiche, anche dal piccolo porto di Reggio Calabria.
Di quelle traversate oceaniche che erano una vera e propria odissea della durata di circa un mese, ci sono delle testimonianze nelle “Memorie di un Commissario di bordo di Giulio Scala” che trascriviamo di seguito:
“Il mio primo viaggio per l’Australia lo effettuai verso il 1957 sulla motonave “Neptunia” del Lloyd Triestino, una nave da 11.000 tonnellate, che ospitava circa 800 passeggeri: un numero molto ristretto in una Prima Classe ed il resto in “Classe Turistica” (così si chiamava, anche se quei disgraziati tutto erano, meno che turisti).
I “turisti” dormivano in dormitori che si chiamavano “cameroni” con una cinquantina di posti in letti “a castello”, […].
La “Neptunia” non aveva aria condizionata e – attraversando il Mar Rosso – nei locali interni e nei “cameroni” la temperatura saliva a livelli molto alti, certamente ben oltre i 40-45 gradi centigradi.
Le sale dormitorio da 50 letti erano ovviamente separate per uomini e per donne. Tali “locali”, adattati a dormitorio, non erano altro che stive di carico della nave. Nel viaggio di ritorno Australia – Italia, i letti venivano smontati e le stive riempite di balle di lana grezza, allora principale merce di esportazione australiana.
I porti d’imbarco della Neptunia in Italia erano Genova, Napoli e Messina. Ci fu un ministro della Marina Mercantile, calabrese, che per motivi elettorali dichiarò che non poteva permettere che i poveri emigranti calabresi dovessero recarsi sino a Messina per imbarcarsi per l’Australia, e fece fare scalo una volta alla nave, oltre che a Messina, anche a Reggio Calabria che, come san tutti, è proprio di fronte al porto siciliano.
Poiché il porto di Reggio, quella volta, era estremamente piccolo ed era estremamente difficile e pericoloso farvi entrare una nave da undicimila tonnellate, per un miracolo la Neptunia non si sfracellò sugli scogli.
Qui finì il progetto e la buona intenzione del Ministro, tesa a evitare ai suoi conterranei l’attraversamento dello Stretto.
A bordo avevamo un cappellano, un prete cattolico il quale, senza posa, giorno e notte, metteva in guardia le donne sui pericoli che le attendevano in un Paese straniero e – forse – senza Dio.
Molte fra le donne siciliane (e calabresi) partivano dal loro paese e villaggio (dall’interno della Sicilia, Calabria e Lucania) vestite di nero, con il fazzoletto in testa e con le calze (nere) lunghe.
Durante il viaggio, sulla nave, le possibilità di lavarsi erano limitate, e d’altra parte, per queste pie e caste donne, il lavarsi, specialmente in punti non visibili, era una cosa forse anche peccaminosa.
Così queste donne attraversavano il Mar Rosso dormendo in questi locali, con temperature allucinanti, senza cambiarsi mai d’abito, senza fare abluzioni (e senza levarsi le calze nere e lunghe). Lascio alla vostra immaginazione la intensità degli effluvi e degli odori che si potevano godere in un camerone con una cinquantina di donne in tale condizione.
Onde evitare e prevenire epidemie, eccetera, ogni mattina facevamo uscire tutti dai dormitori, uomini e donne, ed il Nostromo (la persona più importante a bordo dopo il comandante) con una squadra di marinai (senza maschere antigas) entrava nei locali e li lavava a fondo con manichette (tubi flessibili dei pompieri), con forti getti d’acqua mista a cloro.
Le autorità australiane esigevano, all’arrivo della nave nei porti australiani, – primo porto di scalo era Fremantle, ultimo Brisbane – degli elenchi dettagliati con tutti i dati anagrafici dei passeggeri immigranti. Erano dei formulari con sedici colonne, mi ricordo (questo per le Immigrations & Police Authority), inoltre – per le Autorità Doganali e di Igiene – un altro formulario altrettanto dettagliato, con tutte le cose che gli immigranti recavano seco.
La legge proibiva, nel modo più perentorio, l’importazione di materassi di lana, salumi e tante altre cose che non ricordo.
La maggioranza dei miei “passeggeri – turisti” provenienti dalle regioni dell’Italia Meridionale, Sicilia, Calabria, Campania, Lucania, Molise, eccetera, era composta da poveri contadini dell’interno della regione, i quali non sapevano né leggere, né scrivere.
Nella stagione estiva (europea), da maggio a settembre in India e nell’Oceano Indiano soffia, com’è noto, il Monsone. Gli abitanti dell’India ne sono felici (inondazioni a parte) perché, dopo sette mesi di siccità, finalmente piove (e come!).
Sul mare questo monsone è un vento molto forte e le navi del Lloyd Triestino che andavano in Australia e che si chiamavano “Australia”, “Neptunia” e “Oceania”, erano state costruite nei cantieri di Monfalcone e – al contrario delle navi di costruzione britannica – lunghe e relativamente strette – erano piuttosto corte e alte di sovrastrutture. Con il monsone di traverso (che soffia da Sud-Sud-Est) ballavano e sbandavano come un ubriaco […].
Quindi gli “interrogatori” ai passeggeri, onde poter compilare i suindicati formulari per le Autorità Australiane, dovevano da noi venir effettuati in Mar Rosso, prima di passare il Capo Guardafui, dopo il quale si entrava nella zona del monsone.
Poiché – come ho già raccontato – la nave era priva di aria condizionata e la temperatura, specialmente di giorno, con il sole era, in Mar Rosso, proibitiva, dovevamo organizzare i nostri interrogatori sopracoperta, all’aperto, sotto una tenda, dove spirava un po’ di brezza marina.
Ancora un particolare: sulle navi del Lloyd Triestino, con principio di equità la ripartizione delle cabine e sale di soggiorno per i passeggeri di bordo era suddivisa nel modo seguente: i due terzi della nave (verso prua), per i pochissimi passeggeri di prima classe. La classe turistica (750 – 800 emigranti) era ridotta a un terzo della nave, verso poppa, sopra le eliche, dove il movimento della nave sulle onde si faceva più sentire.
Allora noi mettevamo un tavolinetto sul ponte di coperta, a poppa, con una macchina da scrivere Olivetti “a carrello grande”, pesantissima, per poterci appunto infilare le matrici dei formulari a sedici colonne (che poi venivano stampate e riprodotte in molte copie per i Funzionari Australiani nei vari porti e, davanti a noi “sfilavano” i capifamiglia ai quali chiedevamo i dati da inserire nei formulari.
Il mio italiano è sempre stato piuttosto buono (ho fatto anche l’Università), ma questi uomini, in particolare quelli provenienti dall’interno della Lucania, quando rivolgevo loro la parola in italiano, non mi capivano assolutamente. Logicamente, io non capivo loro.
La soluzione: il mio assistente (gli Assistenti del Commissario di Bordo, con il grado di sottufficiale, avevano quella volta la qualifica ufficiale di “Amanuense” (residuo delle navi di Cristoforo Colombo).
Il mio amanuense era un certo Loffredo, che era nato appunto in Lucania e che quindi parlava ambedue le lingue, l’italiano e il lucano.
Loffredo era un meraviglioso “interprete simultaneo” e non ebbi mai problemi con la gente lucana.
Incominciava l’interrogatorio. La maggioranza dei dati basilari li potevamo prendere dal passaporto. I problemi (gravi) incominciavano quando dovevamo compilare i formulari per la Australian Customs.
E qui si vedeva il secolare scetticismo verso i “Signori” di questa povera gente, da secoli sottomessa dai feudatari, dai preti, dai politici, dalla Mafia, Camorra, ‘Ndrangheta, Sacra Corona. Alle mie domande sulle cose in loro possesso rispondevano a monosillabi (tradotti dal fedele Loffredo), e si vedeva in loro letteralmente la paura che qualcuno, con autorità e potere, potesse portar via loro qualcosa, come, da sempre – era successo nei loro paesi e villaggi.
Le domande: “Avete voi salumi, insaccati?…” non approdavano a nulla. Allora il mio assistente, con molta pazienza, incominciava a spiegare loro che tali alimentari era meglio se li avessero mangiati prima di arrivare in Australia, poiché le Autorità sanitarie li avrebbero distrutti.
Con tanta – ripeto – pazienza e forza di convinzione nel colloquio (sempre in lingua lucana) si riusciva a far capire la cosa agli interessati, ed allora grandi mangiate, a bordo, di coppa, soppressata, salciccia, eccetera.
Altra colonna sul formulario: “Valuta in possesso allo sbarco”. E qui la cosa era estremamente difficile.
Sempre quella paura antica di venir derubati, li faceva rispondere: “Non ho soldi”. Allora noi si cercava di far loro capire che sarebbero stati meglio accolti dalle Autorità di Immigrazione se avessero dichiarato di essere in possesso di una certa somma di denaro, piuttosto che non se avessero detto di avere niente.
Finalmente, dopo un’ora di domande e spiegazioni, un emigrante che per tutto il tempo aveva giurato di non avere una lira, diceva: – Si, ho mille dollari (USA) – che quella volta era una somma ragguardevole e rappresentava per quella povera gente anni ed anni di risparmi.
Parlando di monsone e maltempo, logicamente i nostri emigranti dei quali – come già dicevo – la maggior parte proveniva dall’interno della Lucania, Irpinia, ecc., soffrivano spaventosamente il Mal di Mare.
Appena passato il Guardafui, nel periodo del monsone, la nave cominciava a muoversi, rollio e soprattutto beccheggio, allora vedevi la coperta della nave – che si chiamava “passeggiata” – letteralmente ricoperta da corpi inanimati, lungo distesi, che si lamentavano di stare morendo (avete mai provato un vero mal di mare?) e rifiutava ogni cibo e bevanda.
Alla domanda: “che cosa volete mangiare?” rispondevano “Ulive Nivere” (olive nere), che evidentemente erano l’unico alimento che questa gente consumava in casi di malattie gravi dell’apparato digerente.
Un po’ di malcostume era presente dappertutto. Sulle navi, in generale, ognuno cercava di “arrangiarsi” (la grande Virtù / Difetto di noi italiani. Noi Commissari di Bordo (Secondo e Terzo Commissario) ci “arrangiavamo”, ad esempio, senza creare molti danni, “arrotondando” i cambi di valute. Pochi centesimi per ogni operazione, che, a fine viaggio, costituivano un ricavo extra.”
La partenza da Reggio della motonave Australia piena di emigranti che partivano per l’Australia
Porto di Reggio nave Australia
Porto di Reggio nave Australia o Neptunia