IL PORTO DELLE NEBBIE

L’estate 1994 prepotentemente annunciava l’arrivo con la sua afa appiccicaticcia. Mauro e Massimo, amici d’infanzia, come tutti i giorni s’incontravano al riparo dal sole, all’ombra delle fronde del vecchio e maestoso salice sopravvissuto, non si sa come, alla barbara invasione dell’edilizia del quartiere. Esso, tra il monotono monocolore dei palazzi resistendo stoicamente, sfoggia la sua folta chiama e offre refrigerio dalla soffocante calura, ormai divenuto un monumento raro da salvaguardare. Soliti discorsi tra ragazzi poco più che ventenni con argomentazioni vertenti su come accalappiare ragazze e lavoro che non c’è.

“Sai”, dice Mauro “stamattina sul Corriere di Reggio ho letto di un bando finalizzato all’espletamento di un corso per il reperimento di personale da impiegare al porto di Gioia Tauro”. Massimo ride fragorosamente poi, trattenendo a stento per qualche secondo la risata esclama: “Cercano persone per spalare la sabbia intorno alla banchina”? …  la sua risata prosegue beffardamente.Mauro rimase in silenzio per qualche istante poi aggiunge: “Io ci tento, … questo tentativo in mezzo agli altri! Al massimo ci rimetto le spese della raccomandata!”Lo stesso giorno compila la domanda di partecipazione scegliendo la qualifica più idonea alle sue conoscenze, ai suoi studi: “manutentore”. Certo, d’altre qualifiche non capiva neanche il significato: “rizzatore, ormeggiatore” di altre ancora, rigorosamente in lingua inglese, non riusciva neanche a pronunciare il nome: “dispacher, dekman, cheker, planner”.L’indomani mattina si reca di buon ora all’ufficio postale consegnando la lettera allo sportello delle spedizioni, la stessa è indirizzata alla società incaricata alla selezione ubicata nella lontana città ligure della lanterna.Il mese di giugno vola via velocemente e con esso anche il termine per presentare la richiesta di partecipare al corso. Solo pochi giorni ancora e l’arrivo di una telefonata si trasforma in un fulmine a ciel sereno. Dall’altra parte del filo una sensuale voce femminile lo invita a presentarsi il giorno successivo nel locale gestito dalle suore, una via di mezzo tra una scuola e un convento, proprio nelle vicinanze della sua abitazione, ad espletare i test per l’ammissione al corso. Incredulo, pizzica più volte le braccia per assicurarsi che non è un sogno. … E’ sveglio! La mattina seguente, con largo anticipo rispetto all’orario prefissato, si reca nel luogo indicato aspettando che sia pronunciato il suo nome.Senza alcun aiuto esterno (non c’è stato tempo per ricercare “raccomandazione”) risponde diligentemente ai test attitudinali che gli sono stati riservati.Il superamento della prova gli è comunicata poco tempo dopo quantificando anche la durata del tirocinio pratico e teorico nonché le sedi per l’espletamento. 1200 ore di studio e pratica da svolgere tra Reggio, Spezia, Savona, Taranto, Briatico, Gioia Tauro. Tanti sacrifici da affrontare lontano da casa, remunerati con poche lire, insufficienti a coprire le sole spese. Ormai la strada è imboccata. Tra stupore e incredulità, abbigliato con una tutina giallo canarino (sembrava fatta apposta per attirare ogni tipo d’insetto e a ridicolizzarlo agli occhi della gente), munito di tanta speranza che tutto ciò possa avere un seguito, inizia l’avventura.Il porto delle nebbie, il porto dei misteri, il porto dei fantasmi costruito per accontentare i reggini dopo la lunga e violenta “Rivolta di Reggio” dei primi anni 70, faceva bella mostra di se come un’immensa cattedrale nel bel mezzo del Sahara.Il tempo inesorabilmente trascorre e l’intuizione di Angelo, un furbo armatore genovese, sembra sia azzeccata. Far arrivare tante navi e smistare gli scatoloni metallici trasportati proprio in quell’aria abbandonata e dimenticata. Mattoncino dopo mattoncino, si forma la prima parte dell’immenso piazzale dove saranno accatastati gli “scatoloni”. Le quattro piccole gru obsolete, mai usate (dovevano essere impiegate per lo scarico del carbone da destinare a quella centrale mai nata) esempio tangibile di spreco di risorse pubbliche, corrose dalla ruggine e dalla salsedine, vengano accantonate in un angolo per lasciare spazio a qualcosa di molto più grande, qualcosa di maestoso.I lavoratori sono formati, non resta altro che attendere speranzosi che questa volta si sia intrapreso la strada giusta, la strada che porta a quel lavoro tanto agognato.L’attesa è frustante, spesso Mauro è assalito da un senso di scoramento, sopraffatto dall’idea che anche Gioia Tauro sia un altro contenitore per reperire illecitamente fondi comunitari da “usi e costumi” locali. Insomma un altro “bluff”. Ad attenuare le sue preoccupazioni è sufficiente un episodio casuale.Nell’attesa che la cena fosse servita, adagiato alla ringhiera del balcone, ammirava il sole nascondersi dietro l’Appennino siculo, tra i Peloritani e l’Etna colorando il mare di splendidi e lucenti colori prima di scomparire completamente. A distoglierlo da quello spettacolo che la natura offriva gratuitamente, fu la visione di una piccola imbarcazione seguita a notevole distanza da una zattera sulla quale erano ben fissati due giganteschi mostri blu. Sembravano degli uccelli di ferro con quattro zampe ciascuno e un lunghissimo becco dove il blu si alternava al rosso. Erano le prime gru che ospitava il porto di Gioia Tauro. La nebbia incominciava a diradarsi. Grattacieli messi a galleggiare in orizzontale incominciano a fare tappa sulle banchine rinvigorite. Lasciano e prendono quegli scatoloni tutti uguali in forma e dimensioni ma ripieni d’ogni più disparata mercanzia. Tanti sono i giovani che sono chiamati a prestare la loro competenza nella nuova realtà Gioiese.Finalmente tocca anche a Mauro è il 18 marzo 1996.

Si mette in viaggio calcolando un notevole avanzo di tempo, deve percorrere 60 chilometri di A3, l’autostrada n° 3 d’Italia che si può definire in qualsiasi modo tranne quello di “autostrada”. Una strada tortuosa e pericolosa con insidie continue a stressare il più calmo dei guidatori che la percorre. Quella mattina il meteo non era certo dei migliori, da cornice alla scrosciante pioggia, a rendere più frizzante lo spostamento, il Sant’Elia avvolto dalla nebbia che non permetteva di vedere oltre il palmo del naso.

Nonostante tutto, in largo anticipo sull’orario prefissato, era pronto a firmare quell’agognato contratto di lavoro che le permetterà di condurre una vita dignitosa.

Dinanzi la sede portuale incontra altri colleghi corsisti convovati anch’essi per lo stesso motivo. Sono ricevuti in un saloncino ubicato all’ultimo piano della palazzina del “comando”. A fare gli onori di casa è il dottor Walter Rossi, direttore del personale, esponendo sul petto, in bell’evidenza, un tesserino aziendale con la scritta “staff”.

Un fremito attraversa tutto il corpo di Mauro al solo pensiero di poter esporre anch’egli, quel pezzo di plastica con tanto di foto.

Il dottor Rossi era una vecchia conoscenza, pur ammirando le doti manageriali non considerava parimenti le doti umane.

Dopo le informazioni generali di rito sull’attività lavorativa, il dottor Rossi incomincia ad incutere incertezze e turbamento alle nostre menti.

“Sappiate che il vostro misero stipendio sarà ulteriormente ridotto, decurtato di 30 ore di retribuzione dovute gratuitamente per due anni in l’attuazione di un patto d’aria in accordo con le parti sociali”. Continua il suo duro discorso affermando: “Qui si lavora di sabato e di domenica, di giorno e di notte, a Natale e a Pasqua. Si sa quando si entra ma non quando si esce. Le condizioni di questo lavoro sono queste, a chi non piace può aprire la porta ed uscire liberando il posto. Migliaia di persone sono dietro il cancello e vorrebbero entrare!”

Rossi aveva prospettato quello che doveva essere il lavoro assomigliante tanto ad una forma di schiavitù.

Un affamato mangia anche il pane raffermo per colmare la sua fame e così in un territorio avaro di lavoro ciò che il dottor Rossi offriva era pur sempre una manna dal cielo.

Tra alti e bassi, tra proclami e crisi, tra una “medicazione” e l’altra ai mostruosi uccelli di ferro, a distanza di tre lustri, Mauro è ancora là ad ammirare i giochi di luce e di colore della palla infuocata nascente dalle cime aspromontane la mattina o quando timidamente si nasconde alle spalle di Lipari e Vulcano alla sera.

 

[di Maurizio Quintino, vincitore del Premio letterario “Un mare da leggere” III edizione, sezione B “Racconto Inedito”]