L’ACCOGLIENZA AL CARCERE DI SAN PIETRO DI REGGIO CALABRIA

San Pietro! …

Per i Reggini ha un solo significato!

Infatti, quando viene evocato il Principe degli Apostoli con in mano le chiavi del Regno, non tornano in mente il colonnato del Bernini, la cupola, la monumentale Basilica, la dolcissima struggente Pietà di Michelangelo. Né il piede del Primo Pontefice consumato e lucidato dalle labbra dei pellegrini che si recano al sacro soglio: e tantomeno il gallo posto in cima al campanile della chiesuola costruita nel sottargine del torrente Calopinace. San Pietro, per i Reggini, proprio a causa di quella chiesuola col gallo in testa, triste ricordo di un malinconico tradimento annunciato, quasi accostata alle inferriate esterne che lo recingono, è il carcere.

Dalla piazzuola antistante la chiesa dedicata a Pietro si scorgono le guardie poste a sentinella sui muri perimetrali e nelle garitte d’angolo. Sembrano messe lì per proteggere la statua dell’Apostolo, eretta sull’altare maggiore. Ma loro sono consapevoli di svolgere un servizio doloroso!

Al carcere si accede dalla via San Pietro, una strada piuttosto larga e lunga poche decine di metri.

Sul calar del sole del 29 luglio ’92, scortato da tre carabinieri sopra una vettura di servizio civile un po’ sgangherata, fui introdotto per quella strada dentro le “sacre” mura, che mi avrebbero racchiuso per i primi quaranta giorni di “custodia cautelare”.

Espressione quest’ultima così leggiadra e accattivante, così lieve e delicata, che si farebbe meglio a levar dal codice per evitare ogni possibile quanto ipocrita ed evasiva reinterpretazione.

Nasconde, infatti, una varietà tanto incredibile e assurda e tanto tragica a far contrasto col suono dolce delle parole usate e col significato che ognuna di esse si suole dare comunemente.

Assolti gli adempimenti burocratici presso l’ufficio matricole, fui sottoposto ad una ripresa fotografica di dritto e di traverso e all’opposizione delle impronte digitali.

Con le mani imbrattate d’inchiostro fui poi invitato a scendere con la borsa dei miei effetti personali in un cantinato ammuffito. Qui mi costrinsero a spogliarmi, mi perquisirono gli indumenti che avevo addosso, mi fecero piegare le gambe per capire se nascondevo nel retto qualcosa, mi sgualcirono tutti i capi di biancheria che avevo nel borsone; si trattennero il portafoglio, il borsone e i soldi, che mi furono accreditati in un conto corrente interno.

Mi diedero poi un sacco nero di plastica, dove di solito si raccoglie la spazzatura, per infilare tutto quel disordine che mi avevano combinato e per aggiungere la fornitura dell’amministrazione: le lenzuola, un cucchiaio e una forchetta, un piatto e un ciotolone di metallo, una saponetta, la carta igienica; e con tutta quella roba, accompagnato da una guardia che parlava più il sardo che l’italiano, fui spedito verso la sezione dei “camerotti”.

Con l’anima angosciata, profondamente umiliato per lo sconvolgimento che il rituale precedente mi aveva provocato, già traumatizzato per il mio primo ingresso in un carcere, portavo sulle spalle come Cristo la Croce, il mio sacco nero e i miei sessant’anni verso il luogo dove da quel momento gli altri avrebbero disposto della mia esistenza.

I “camerotti” e i “cellulari” sono le due sezioni del carcere maschile. Sono separate da un lungo corridoio, da due cancelli e due portoncini in ferro. I detenuti dei due bracci non si incontrano. Fui indirizzato verso l’ala dei camerotti. Si aprì il portoncino di ferro ed entrai così nel mondo delle celle.

I detenuti del piano terra guardavano tra le sbarre. Da qualcuno fui riconosciuto. Radio carcere, che è il risultato del mormorio che si diffonde di cella in cella, trasmise la “lieta” notizia. La guardia mi accompagnò fino alle sbarre di una cella, l’aprì e m’introdusse con tutto il sacco. Un detenuto mi chiamò per nome e con un sorriso confortante e uno sguardo dolce mi abbracciò e mi presentò agli altri due ospiti, un giovane alto e forte, dallo sguardo fiero e luminoso e un uomo di mezza età, un po’ claudicante, che mi guardò negli occhi facendomi intuire la sua saggezza mista a bontà. Mi venne in mente una frase di Jean Vanier “… non bisogna cercare la comunità ideale. Si tratta di amare quelli che Dio ci ha messo accanto oggi”.

 

[Tratto da Carceri, da San Pietro all’Ucciardone di Franco Marra edito da Laruffa Editore.]