I CINQUE ANARCHICI DI REGGIO

Siamo negli anni Settanta, gli anni del terrore, della strategia eversiva nera e della brigate rosse. Questo chi vi raccontiamo è uno dei tanti misteri italiani.

Era il 26 settembre del 1970, da poco son passate le 23, al chilometro 58 dell’Autostrada A1, Napoli – Roma, tra Ferentino e Frosinone, un’incidente coinvolge una Mini Morris targata RC 90181 di colore giallo e un autotreno targato SA 135371 che trasporta pomodori. Nel tragico incidente perdono la vita i cinque ragazzi a bordo dell’auto, tutti anarchici, provenienti dalla Calabria. Angelo Casile, 20 anni, Franco Scordo, 18 anni, Luigi Lo Celso, 26 anni, Gianni Aricò, 22 anni, Annalise Borth, 18 anni moglie di quest’ultimo, incinta di due mesi, tutti anarchici della baracca (nome del luogo, nei pressi di Reggio Calabria, dove i giovani di area anarchica usavano ritrovarsi). A bordo del grosso mezzo Serafino e Ruggiero Aniello rimasti illesi.

Il viaggio fu programmato in concomitanza dell’arrivo a Roma del presidente statunitense Richard Nixon  e della manifestazione di protesta indetta il 27 settembre, con loro avevano un faldone con documenti che, come disse Gianni Aricò alla madre, “faranno tremare l’Italia”. Le carte, da consegnare alla redazione di Umanità Nova nella mani all’avvocato anarchico Edoardo De Giovanni, erano il frutto di indagini dei cinque ragazzi e contenevano informazioni scottanti su due eventi accaduti nell’estate del 1970, la rivolta di Reggio  e il deragliamento del “treno del sole” avvenuto il 22 luglio a Gioia Tauro.  Riguardo la rivolta di Reggio sostenevano l’infiltrazione di neofascisti di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale nell’intento di strumentalizzare la piazza a fini eversivi mentre il deragliamento del treno sia stato causato da una bomba messa da neofascisti in collaborazione della ‘ndrangheta.

Il faldone contenenti quei documenti mai fu ritrovato.

La Polizia Stradale e la magistratura imputarono l’incidente ad un  probabile errore del guidatore della Mini Morris che ha portato l’auto a schiantarsi sul retro del camion fermo nella corsia di emergenza con le luci spente ma nessuno ha mai creduto alla versione ufficiale, troppo strana la dinamica, la tempistica e per l’arrivo della polizia politica proveniente da Roma.  Il 28 gennaio del 1971 il procuratore generale di Roma restituisce il procedimento di indagine alla procura di Frosinone la quale, con decreto del giudice istruttore, archivia il caso come incidente autostradale.

Secondo chi ha curato le controinchieste i cinque ragazzi  dovevano essere messi a tacere avendo in mano una lista di estremisti neri provenienti da tutta Italia che avevano attivamente partecipato alla rivolta di Reggio e che quella di Gioia Tauro era una strage dell’eversione nera, portata a termine col supporto della ‘ndrangheta. E a qualcuno lo avevano detto. E poi ci sono quelle strane coincidenze. I due camionisti erano dipendenti di una ditta facente capo al principe Junio Valerio Borghese personaggio al centro delle trame eversive in quegli anni ben conosciuto nell’ambiente dell’estrema destra nonché ideatore del famoso golpe Borghese dell’8 dicembre dello stesso anno. Pare anche che  il primo ufficiale a intervenire e ad interessarsi dei rilievi sull’incidente sarebbe stato tale Crescenzio Mezzina entusiasta partecipante al golpe Borghese di qualche mese dopo. Strana fu, inoltre, il giorno prima della loro partenza, una telefonata ricevuta dal padre di Lo Celso da parte di un amico che lavorava alla polizia politica di Roma che lo ammoniva: “È meglio che non faccia partire suo figlio“.

Nel 1993 i pentiti di ‘ndrangheta Giacomo Lauro e Carmine Dominici dichiararono al Giudice Guido Salvini la presunta collusione tra ambienti di estrema destra e ‘ndrangheta e la diretta responsabilità di questi nella rivolta di Reggio e nell’attentato al “treno del sole” a Gioia Tauro. Carmine Dominici dirà al giudice: “Personalmente ritengo che quello dei cinque ragazzi non sia stato un incidente ma un omicidio. E tale opinione è condivisa anche da altri militanti avanguardisti. Non sono assolutamente in grado di indicare chi potrebbe aver preso parte alla presunta azione omicidiaria e, peraltro, era illogico che ci si rivolgesse a militanti calabresi in quanto ciò avrebbe comportato un pericoloso spostamento geografico”.

Nel 2001 si sollevarono dubbi sulla morte dei cinque anarchici è il responsabile della Direzione Distrettuale Antimafia Calabrese, Salvo Boemi, definendo “logica e plausibile” l’ipotesi che l’incidente dei cinque anarchici e il deragliamento del treno a Gioia Tauro, siano delle stragi. Stragi organizzate per coprirne un’altra affermando: “sono convinto che quei cinque giovani avessero trovato dei documenti importanti. Non riesco a spiegarmi in altro modo la sparizione di tutte le carte che si trasportavano nella loro utilitaria. È un caso che avrei desiderato approfondire […] ma esistono insormontabili problemi di competenza”.

A quasi mezzo secolo dall’evento nessuno ha pagato, la storia dei cinque anarchici rimane segnata da coincidenze e casualità a riproporre quella connivenza, negli anni settanta, tra ‘ndrangheta, massoneria  ed eversione nera che nel tempo si è trasformata nel nucleo di un sistema criminale ben consolidato.