IL SUPPLIZIO DELL’AVIATORE REGGINO TITO MINNITI

[ATTENZIONE, il seguente scritto descrive scene forti]

Raccontare la morte di Tito Minniti è una delle vicende più macabre e orribili, impensabile  anche dal più fantasioso scrittore horror, una storia che dimostra la ferocia e la malvagità dell’essere umano.

Tito Minniti nasce a Placanica in provincia di Reggio Calabria il 31 luglio del 1909 e deceduto a Dagabur (Etiopia) il 26 dicembre 1935 a soli 26 anni.

È stato un sottotenente aviatore della Regia Aeronautica  decorato con la medaglia d’oro al valor militare  e considerato eroe della guerra d’Etiopia. In sua memoria è stato intitolato l’aeroporto di Reggio Calabria e diverse scuole nel territorio nazionale.

Era il giorno successivo al Natale del 1935, il sottotenente Tito Minniti e il sergente Zannoni decollano dal campo di Gorrahei (Etiopia) sotto il controllo delle truppe italiane, per un volo di ricognizione su Dagabur. La cattiva sorte volle che il loro velivolo fosse colpito dal fuoco nemico e costretto ad atterrare. In un baleno furono circondati dai nemici abissini e, nonostante lo strenuo tentativo di difesa con il mitragliatore di bordo, il sergente Zannone fu colpito a morte, il Minniti ferito venne catturato e portato nel villaggio di Bolali dove subì inaudita violenza con torture di ogni genere che lo portarono alla morte. Dopo il decesso fu decapitato e la sua testa, infilzata in una lancia, fu portata in trionfo dai soldati con il compiacimento del governatore di Harrar.

Il martirio del giovane aviatore reggino fu  descritto in una deposizione spontanea, verbalizzata, fatta da un aiuto farmacista egiziano facente parte di una missione sanitaria di aiuto all’Abissinia. Il verbale era presente in un dossier del Governo Italiano per denunciare la crudeltà degli abissini sui prigionieri di guerra italiani. Abdel Mohsein El Uisci sotto giuramento depone:

”Il giorno 24 dicembre alle ore 16 circa, mentre uscivo dalla tenda dell’ ambulanza egiziana, a Bolali, ho visto passare un gruppo di armati abissini, al comando del graduato Manghestu, che trascinavano un individuo in tenuta di aviatore, il quale aveva le mani legate dietro la schiena. Dovendo recarmi a prendere acqua nella vicina località di Bìr, mi posi in cammino seguendo la stessa strada degli abissini. Essi si fermarono non molto lontano e, dopo avere tolta la tuta all’aviatore, gli misero ì ceppi anche ai piedi e lo legarono ad un albero. Chiamato dal graduato Manghestu, che mi chiese una sigaretta, mi avvicinai e, incuriosito, mi fermai a guardare, non prevedendo certamente lo spettacolo orribile a cui avrei dovuto assistere. I soldati, mentre il graduato seduto a terra fumava la sigaretta che gli avevo dato, slegarono le mani al prigioniero e, tenendolo fermo, gli mozzarono le dita. Manghestu, finito di fumare, si avvicinò al disgraziato che urlava di dolore, gli rimise i ferri ai polsi insanguinati, gli tolse la giacchetta e la camicia e gli sputò in faccia. Uno dei soldati gli recise un ciuffo di capelli dietro il capo, come gli abissini usano fare ai delinquenti, e lo consegnò al Manghestu. Quindi all’aviatore vennero liberati i piedi e tolti i pantaloni che, essendo stretti in fondo, furono tagliati col coltello. Egli rimase così completamente nudo. Un soldato gli rimise i ferri ai piedi e inginocchiatosi – premendo con la testa il ventre del disgraziato per tenerlo fermo – gli recise gli organi genitali. L’aviatore diede un urlo straziante, mentre il sangue usciva impetuoso dalla spaventosa ferita. A questo punto io che ero rimasto inchiodato sul poso dall’orrore, mi sono dato a fuggire verso la tenda dell’ambulanza. Colà incontrai l’infermiere Mohamed Hassan al quale, appena fui in grado di farlo, raccontai con voce rotta dall’emozione, l’orrendo spettacolo a cui avevo assistito. Ambedue tornammo sul posto per prendere la borraccia che, fuggendo, avevo lasciato a terra. Ma una scena ancora più orribile ci attendeva: il disgraziato, ormai cadavere, era stato slegato e coricato per terra, dove giaceva immerso in un lago di sangue, mentre il graduato stava scorticandogli il petto. Inorriditi e vincendo il timore che ci incutevano gli armati etiopici, domandammo al Manghestu perché si accanisse ancora sul cadavere. Egli ci rispose che con la pelle del morto aveva in animo di farsi lui portasigarette che avrebbe usato soltanto nelle grandi solennità. Terminata l’orribile operazione, il cadavere venne sezionato. La testa ed i piedi vennero infilati nelle baionette, mentre si tentava di bruciare gli altri miseri resti con petrolio preso in un accampamento di cammellieri somali poco distante. Poi gli armati, di cui uno portava infilata sulla baionetta la testa dell’aviatore, altri due i piedi, a cui erano state tolte le scarpe, un altro ancora gli indumenti e il Manghestu infine gli organi genitali, presero posto in un autocarro che parti verso Dagabur, Giggiga, Harrar. Il giorno seguente, portando i rapporti medici a Wehib pascià, gli narrai la scena orribile a cui avevo assistito. Egli, a onore del vero, si dimostrò assai dispiaciuto, ma mi raccomandò di tacere. Anche il mio compagno Mohamed Hassan raccontò il fatto al dott. Mahmu Izzet, il quale gli ordinò di non allontanarsi dall’ospedaletto. Tre giorni dopo il fatto, il Manghestu fece ritorno a Bolali. Egli dichiarò di aver ricevuto festosissime accoglienze a Dire Daua e ad Harrar quando era giunto colla testa e con i genitali dell’ aviatore italiano. Il Maghestu aggiunse che ad Harrar era stato formato un grande corteo che si era recato al palazzo del Governatore di quella provincia per mostrargli i macabri trofei. Fu il quarto giorno, se ben ricordo, che gli aeroplani italiani compirono un’incursione lanciando dei manifesti a firma del generale Graziani in cui era detto circa così : ‘Avete assassinato un aviatore italiano, violando i principi dell’umanità per i quali i prigionieri sono sacri. Sarete puniti’. Seppi allora che l’aviatore si chiamava Minniti. Poco dopo infatti gli aeroplani italiani bombardarono la regione. L’ambulanza però non subì alcun danno. La bomba più vicina cadde a tre chilometri dalle nostre tende. Alcuni giorni dopo, dietro richiesta del Dott. Sakkani – dato che la zona era pericolosa per la vicinanza degli armati abissini, presi di mira dagli aeroplani italiani – l’ambulanza lasciò Bolali per Giggiga e Harrar. In questa ultima città incontrammo il dott. Abdel Hamid Sald, inviato dal comitato egiziano per la difesa dell’Abissinia”.

Queste dichiarazioni sono confermate, sotto giuramento, anche da altri due egiziani anch’essi componenti della missione sanitaria, Kamel Aluned  e Labili Salamah. [fonte wikipedia]

 

Tito Minniti viene insignito della medaglia d’oro al valor militare consegnata alla sorella da Benito Mussolini con la seguente motivazione:

“Ardito e provetto pilota, in lunghi voli di ricognizione su territorio nemico, dava costante prova di tenacia, fermezza e sprezzo del pericolo. Portava per primo nei giorni 21 e 26 novembre 1935, l’Ala tricolore nel cielo di Giggica e Harrar, ultimando e portando a compimento la sua ardita missione nonostante le proibitive condizioni atmosferiche. Il giorno 26 dicembre, partito in volo dal campo di Gorrahei per ricognizione su Dagabur, veniva colpito all’apparecchio da violento fuoco di reazione antiaerea che lo costringeva ad atterrare nelle linee nemiche. Anziché sottomettersi ad una massa imbaldanzita accorsa per catturarlo, affiancatosi al suo sottufficiale, preferiva ingaggiare una titanica ed indomita lotta. Soverchiato dal numero e dalla ferocia del barbaro nemico perdeva gloriosamente la vita. Fulgido esempio di elevate virtù militari, fiero spirito di sacrificio e d’italico indomito valore. Dagabur, 26 dicembre 1935”. [tratto da wikepedia]