LEGGENDE REGGINE: LE GRU VENDICATRICI

Prima di spirare Ibico vide scorrere davanti agli occhi tutta la sua vita.

Si ritrovò fanciullo spensierato nell’adorata Rhegion e poi giovane discepolo di Stesicoro che gli insegnò l’eposgreco. Rivisse il doloroso distacco dalla terra natia e dal nobile padre Ftio (secondo alcune fonti si chiamava Certande), che lo voleva governatore, per vagare senza meta e dedicarsi anima e corpo ai suoi versi. Rammentò i suoi viaggi in Ionia, nel Peloponneso e a Samo, alla corte di Policrate dove conobbe il caro Anacreonte.

Oh, quanti lieti tramonti passati a conversare allietati dalle note soavi della musica” pensò, richiamando alla mente il diletto arpeggio con l’ibicino da lui stesso inventato.

Ma il ricordo più appassionato volse a Nereide, l’amata.

Restò folgorato da quando la vide la prima volta, ospite del padre nella Calcide. Aveva lunghi capelli raccolti dietro la nuca, coi boccoli che cadevano morbidamente sulla spalle, riuscendo solo a velare il candore della sua pelle, ed occhi profondi e ammaliatori come non ne aveva mai visti.

Non furono solo la bellezza e la freschezza della giovane a farlo accendere d’amore, ma anche il suo animo puro, capace di generosità e virtù.

Ogni volta che si trovava al suo cospetto il cuore accelerava i battiti e la lingua era incapace di proferire parola, tanta era l’emozione. Un sentimento che fino ad allora gli era sconosciuto.

Lui che aveva cantato per tutta la vita la passione, lodato la bellezza degli efebi e delle vergini ninfee, celebrato la gloria degli eroi e degli dei, lui, definito dal sommo Cicerone il più infiammato d’amore di tutta la Magna Grecia, ne aveva scoperto per la prima volta l’essenza solo quando era ormai avanti negli anni.

Fu tentato più volte di confessare l’ardente passione che gli bruciava il petto, tormentandolo giorno e notte, ma si costrinse al silenzio perché Nereide era già stata promessa in sposa, dal padre, al ricco Euforione.

Un giorno mentre era seduto a meditare immerso nel profumato giardino di rose, socchiuse gli occhi stanchi per il malessere che li aveva colpiti. Sopraggiunse Nereide dal gineceo, e credendo che fosse sopito, sollevò la mano e gli accarezzò amorevolmente il volto, quasi a voler impedire nella memoria quei lineamenti.

Ibico aprì gli occhi e la giovane, sebbene imbarazzata, non si scostò. Si strinsero in un tenero quanto doloroso abbraccio consapevoli che il loro era un amore appena nato e già impossibile.

Incapace di accettare l’amara realtà, Ibico decise di recarsi dall’oracolo per chiedere la guarigione dal male che gli ottenebrava la vista e soprattutto per ricevere una profezia sul suo futuro.

Intanto Nereide, fingendosi consenziente al desiderio del padre, cercava ogni scusa per rinviare la celebrazione delle nozze.

Si separarono con la speranza di ritrovarsi presto, confidando nella benevolenza degli dei.

Giunto al tempio, l’oracolo Anfiarao gli andò incontro dicendogli: “Conosco il reale motivo che ti ha spinto a venire da me, ma io ti posso sanare le pene del corpo non quelle dell’anima”. Quindi, gli cosparse gli occhi con la prodigiosa acqua della sua fontana e lo guarì.

Quando il poeta gli chiese quello che stava più a cuore, il vecchio rispose: “Ho visto in sogno che non ci sono buoni auspici per te. Presto riceverai un annuncio ma non dovrai metterti in viaggio”.

Lasciato l’oracolo, Ibico fece rientro in patria con un peso sul cuore.

Qualche giorno dopo un messo inviato da Nereide si presentò presso la sua dimora e gli comunicò che le nozze erano state annullate a causa di un impeto di violenza di Euforione. Questi, infatti, aveva fatto torturare e uccidere uno schiavo solamente per aver rotto un vaso e tale crudeltà aveva spinto il padre della giovane ad un ripensamento: non poteva consegnare la sua unica figlia nelle mani di uomo che si abbandonava a così malvagie inclinazioni!

A questo punto Ibico, dimenticò persino del sibillino responso di Anfiarao, si mise in cammino dalla città natale per raggiungere la giovane e chiederla in sposa.

Giunto nei pressi di Calamizzi, scorse da lontano due uomini, dall’aspetto poco rassicurante e affrettò il passo sospettoso. Ma i due si dirigevano proprio verso di lui e, una volta vicini, lo bloccarono col pretesto di domandare un’indicazione.

Sebbene diffidente, Ibico rispose, suo malgrado, con gentilezza e si accinse tosto a riprendere il cammino.

A questo punto i due masnadieri gli sbarrarono il passo e cominciarono a schernirlo, strattonandolo per la veste.

Impaurito il poeta si guardò intorno, ma per quanta terra vedesse non v’era ombra di anime viventi nei paraggi.

Con difficoltà riuscì a svincolarsi ma non fece in tempo a procedere un metro di strada che i ladroni, in un lampo, lo aggredirono, derubandolo di tutto ciò che aveva con sé, e, non contenti, lo percossero fino a farlo stramazzare al suolo per le ferite. Sentendo vicina la fine, Ibico pensava che ora, che finalmente poteva coronare il suo sogno d’amore, con il cuore fremente di bruciante follia, moriva brutalmente per così rozza mano, e da solo. Senza nessuno che potesse vendicarlo.

Improvvisamente, acute e squillanti strida si sentirono provenire dall’alto.

Era una frotta di gru che, come ogni anno, sorvolavano quello specchio di cielo in cerca di zone più calde dove compiere le loro sublime danze.

Come le ebbe udite, non riuscendo a levar in alto le deboli pupille, ormai moribondo, Ibico invocò: “o divini augelli, almeno voi che siete gli unici testimoni di questo delitto, possiate vendicarmi con la vostra voce!”.

Poi chiuse gli occhi e spirò.

I ladri si fecero beffa delle sue parole e con il bottino ottenuto ripresero il lungo cammino che dalla vicina isola li aveva condotti sulla terraferma, proseguendo tra i canneti bianco argentei e le ghirlande di pampini che fiancheggiavano le rive di Calamizzi e disperdendosi poi tra le montagne selvose.

Poco dopo , giunsero nel lido alcuni pellegrini e, riconosciuto in quel volto sfigurato dal mortale pallore, il sommo Vate, corsero a raccontare l’accaduto.

La notizia della morte del poeta destò profonda commozione tra la gente comune e gli altissimo lirici di tutta la Grecia e il desiderio di onorarne la memoria assicurando i suoi assassini alla giustizia si diffuse per ogni dove.

Malgrado ciò essi rimasero a lungo ignoti.

Passarono le stagioni, finché una mattina i due predoni si trovarono nella piazza della città di Corinto, nel giorno del pubblico mercato, ancora intenti a sperperare i denari rubati al Vate.

Uno di loro, per caso, guardò in alto, e, vedendo passare nel cielo sopra la propria testa, uno stormo di gru, si rivolse al compare sghignazzando: “Guarda i vendicatori di Ibico!”.

Questo bastò affinché i due fossero scoperti, svelando agli occhi della gente che era nelle vicinanze la verità sul crimine commesso.

Una passante, infatti, sentita la battuta cominciò ad urlare: “Sono loro; gli assassini del poeta!” additando i due predoni.

In un attimo un’intera folla li braccò e i due malfattori furono arrestati e puniti come meritavano per aver ucciso uno dei figli più grandi della Magna Grecia.

Ibico poté così riposare in pace su quella terra che aveva visto i suoi travagli, circondato dall’edera e dai bianchi canneti. Fin quando, il 20 di ottobre dell’anno di Cristo 1562, per l’insana opera dell’uomo e l’avversità del fato, l’acroterio di Calamizzi sprofondò negli abissi, impedendo alle generazioni future di posare un fiore sul sepolcro del cantore della letizia e del pathos,  ambigue quanto travolgenti parti del sentimento chiamato amore.

 

Tratto da: “FEBEA, Miti, misteri e leggende di Reggio Calabria e dintorni” di Marina Crisafi edito da Laruffa